Il falso diario e la vera fascinazione di Édouard Manet

Gli ultimi tre anni di vita del grande pittore ricostruiti sulla base di un immaginario taccuino

Il falso diario e la vera fascinazione di Édouard Manet

Gli ultimi tre anni della vita di Édouard Manet, dal 1880 al 1883, furono dolorosissimi eppure esaltanti. Aveva appena toccato la cinquantina, ma la malattia venerea che lo avrebbe portato alla tomba aveva fatto la sua apparizione un decennio prima, «sifilide secondaria» aveva diagnosticato allora il medico. «I dottori sono i luogotenenti della morte, tutti quanti dal primo all'ultimo. Uno gli racconta i propri segreti più inconfessati, e loro li usano per vivisezionarti e distruggerti ancora di più». Eppure, mentre le gambe avevano cominciato prima ad addormentarsi, poi a dolere, infine a cedere, e le cure idroterapiche in campagna a trasformarsi in palliativi inutili e insieme faticosi, finalmente erano cominciati ad arrivare i riconoscimenti ufficiali nei confronti della sua arte, il tributo ahimè tardivo a una carriera troppo a lungo contestata. Una medaglia del prestigioso Salon di Parigi, la croce di cavaliere della Legion d'onore... «Faire vrai, laissez dire» era sempre stato il su motto, dipingere la realtà, meglio ancora «l'illusione della verità», e disinteressarsi del chiacchiericcio, delle polemiche interessate, degli odii gratuiti.

Nel 1881, un illusorio cambio di cure gli aveva portato un momentaneo miglioramento, di cui si era servito per fare un salto alle Folies Bergère e lì aveva capito tutto. C'era una barista, «carina - tutte le bariste lo sono- ma questa in particolare ha un che di serio nel volto. Di crudo». C'era un possibile quanto improbabile corteggiatore, e poi il rumore «una baraonda di rumori», «il brulicare della vita», il colore. Aveva cominciato a fare una serie di bozzetti, buttato giù dei disegni. Voleva scacciare dalla sua mente l'idea che le onorificenze appena ricevute significassero sì un riconoscimento, ma anche il prendere atto che la sua carriera era finita, che come artista apparteneva al passato. E invece no, erano il giusto tributo per quello che ancora avrebbe potuto fare. All'amico più fedele, Tonin, aveva fatto vedere quei primi schizzi. «Sarà un capolavoro - era stata la risposta - È come se schierassi tutto il tuo esercito». E sì, si era detto Manet: «Sarà il culmine della mia carriera. Ne sto mettendo i pezzi insieme da una vita».

Tredici anni prima, Manet aveva dipinto L'esecuzione di Massimiliano, l'arciduca d'Austria trasformato in imperatore del Messico dal delirio bellicista di Napoleone III e poi lasciato al suo destino, una pagina drammatica della storia di Francia, un quadro che prendeva forma via via che «le notizie dell'assassinio giungevano in patria». Era stato il suo modo di protestare contro un'azione politica cinica e dissennata, una sorta di delitto di Stato. «Neanche se avessi potuto dare a Massimiliano la faccia di un agnello sacrificale avrei potuto creare un'immagine più critica, o più sovversiva, di Napoleone III. Ho avuto l'idea di dipingere le mie proteste - e il mio destino - a grandezza naturale». L'ha pagata con l'ostracismo e insieme con il rifiuto: quel quadro non lo voleva nessuno, quel quadro quasi nessuno l'ha visto... Ma ora, alle prese con la sua barista, L'esecuzione di Massimiliano gli è tornata alla mente, ed è osservandolo con attenzione che ha «avuto l'illuminazione». La sua barista, Mlle Tonnerre, ha bisogno della stessa «visione globale»: occorre per essa che lo spettatore arretri, occorre che per i dettagli allunghi il collo o si pieghi in avanti... Una voce gli risuona nella testa: «Ma certo, certo. Volevi fare un grande affresco delle donne di Parigi, e lo vuoi ancora. Un affresco, non un ritratto».

Sa benissimo, Manet, che le dimensioni di quel primo dipinto, due metri per tre, gli sono ormai precluse. «Non posso più né allungarmi né piegarmi, né stare in equilibrio su una scala, né arrampicarmi agilmente su tutta la superficie della tela come una volta». Fatica a stare in piedi, fatica a stare seduto, nemmeno il restare sdraiato gli dà pace. Eppure: «Devo provarci. Se voglio che questo nuovo quadro sia una grande cosa devo fare una grande cosa. Devo dipingere più grande che posso». Il bar delle Folies Bergère (1881-82) misurerà un metro per un metro e mezzo, «una sorta di trittico, una pala d'altare della vita moderna», con Mlle Tonnerre al centro della composizione. Tutto il dipinto, in fondo, è una sorta di chi guarda chi, un incrocio fra l'occhio dello spettatore e gli sguardi dei personaggi che affollano la scena, compreso l'azzimato corteggiatore al bancone. «Lo sguardo della barista è diretto a lui o a voi? Siete fra gli amanti delle distrazioni offerte da questo circo pazzo di vita e di amore? Siete partecipanti, o meri spettatori? Perché la vostra semplice presenza davanti al quadro fa di voi dei voyeur della vita moderna, in tutte le sue forme. Amici, siete come me?».

Un particolare di Il bar delle Folies Bergère fa da copertina a Il diario perduto di Edouard Manet di Maureen Gibbon (Einaudi, pagg. 432, euro 21; trad. Giulia Boringhieri), ricostruzione romanzesca, basata su un immaginario taccuino conservato dalla domestica del pittore, Elisa, dei suoi ultimi anni, ma perfettamente aderente ai giudici, alle frequentazioni, alle amicizie, agli incontri, persino agli scontri e agli scatti d'umore, che tanta parte ebbero nella sua tutto sommato breve esistenza. Come racconta bene la Gibbon, Manet sapeva che «la vita era troppo breve per dipingere tutto, ma come resistere, come essere indifferenti allo spettacolo della bellezza universale, le ali di uno sciame di libellule, la luce riflessa in una goccia di rugiada, i lineamenti vivi e pulsanti, appunto, di una giovane barista?»... È questa fascinazione al centro del romanzo, e in controluce la vita stessa di una capitale che dal celebrare un impero era poi passata a incarnare una sconfitta, quella di Sedan e della guerra franco-prussiana, una rivoluzione finita nel sangue, la Comune di Parigi, per poi risvegliarsi in una Repubblica epitome della Belle Époque...

Nato nel 1832, Manet aveva vissuto i vent'anni all'ombra del sole ingannatore di Napoleone III e i quaranta quando aveva dovuto constatare il crollo di quell'impero di cartapesta. Di buona famiglia, avviato alla carriera militare, l'inclinazione artistica aveva poi avuto la meglio. Era un moderno, ma nel solco della tradizione e anche lui, come il suo amico Degas, avrebbe potuto dire che «Tiziano sarebbe felice di scambiare quattro chiacchiere con me, prima di salire sulla sua gondola». Il decennio dei Settanta radicalizzò quelle scelte come Le déjeuner sur l'herbe e Olympia che tante polemiche avevano scatenato in quello precedente.

Nella nuova Francia repubblicana c'era una bellezza, un'arte che andava rivelata in quanto nuova, inedita, tragica persino nella sua modernità, e dove il sesso, la voracità sessuale avrà una grande importanza e da Baudelaire ai Goncourt, a Maupassant, allo stesso Manet lascerà molte vittime sul campo.

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