Il fondatore di Radio Italia: "Così ho aiutato il nostro pop a divenire meno provinciale"

Parla il fondatore della radio che trasmette soltanto brani nella nostra lingua: "Quando abbiamo iniziato, tanti non avevano il coraggio di nominare l’Italia". QUAL E' IL TUO BRANO PREFERITO?

Il fondatore di Radio Italia: "Così ho aiutato il nostro pop  a divenire meno provinciale"

Mario Volanti è una forza della natura: da trent’anni cavalca un sogno e non l’ha mai abbandonato: la musica italiana. Forse per questo, parlando della sua creatura Radio Italia, che lunedì in piazza del Duomo festeggia con un concertone i tre decenni di vita, si accende di entusiasmo contagioso e mai autoreferenziale: «Ho seguito la mia passione, ecco». Lunedì sera, quando una delle voci storiche della radio, ossia Luca Ward, introdurrà il concerto più grande dell’estate, Volanti si godrà una di quelle soddisfazioni che valgono una vita: decine di migliaia di persone sotto il palco, due numeri uno come presentatori (Belén Rodriguez ed Enrico Ruggeri), un cast stellare. Il tutto condito da una punta d’orgoglio: senza Radio Italia la musica di casa nostra avrebbe fatto il doppio della fatica a diventare meno provinciale.

Mario Volanti, giusto l’altro giorno Enrico Ruggeri ha detto che Radio Italia è stata «una provocazione culturale».
«Mi fa molto piacere ma io sono meno intellettuale».

Cioè?

«Posso solo dire che quando è nata Radio Italia moltissimi hanno detto: finalmente. E io ho sempre trovato strano che qualcuno si stupisse. Siamo in Italia e dovrebbe essere normale trasmettere musica italiana. Ma nell’82 molti non avevano neanche il coraggio di parlare di Italia».

Appunto.

«E ciò influiva molto anche sulle scelte musicali degli adolescenti. Pur di non sentirsi esclusi, si allineavano ai gusti di chi preferiva canzoni straniere».

A metà anni Ottanta sembrava che quasi tutti preferissero canzoni straniere.

«Un giorno ho avuto la dimostrazione del contrario. A Radio Italia, che allora era in pieno centro a Milano, è venuto ospite Nino D’Angelo. Non quello impegnato e maturo di oggi. Quello di Nu jeans e ’na maglietta. Bene, tutte le ragazze che lavoravano nei dintorni, tutte chic e modaiole, sono arrivate in massa per incontrarlo, fotografarlo, farsi fare un autografo. Imprevedibile».

Com’è nata Radio Italia?

«Io ero musicista, avevo anche partecipato a due Festival di Sanremo con La Nuova Gente nel 1976 e gli Opera nel 1981. Mio padre aveva un negozio di dischi. Ho fatto un po’ di gavetta e poi ho fondato la radio».

Idee chiare.

«Avrei potuto chiamarla con un nome strano, magari inglese. Ho scelto il più ovvio ma provocatorio: Radio Italia. Sono andato in una falegnameria di viale Monza a Milano e mi sono fatto tagliare il compensato per i tavoli mixer e poi li ho montati io: siamo proprio partiti da zero. Ho montato con le mie mani i trasmettitori sui pali della funivia di Valcava».

E ora?

«Viaggiamo tra i tre milioni e mezzo e i quattro milioni di ascoltatori al giorno. Dodici alla settimana. Girano indagini e rilevamenti diversi ma in tutte il nostro dato è stabile».

Il segreto?

«Abbiamo tracciato una strada di congiunzione tra pubblico e artista. E garantiamo competenza, oltre che un linguaggio educato. Non sono bigotto e credo che nel privato ciascuno possa dire ciò che vuole. Ma se entri in casa delle famiglie, come fa Radio Italia, devi rispettarle. Senza volgarità».

Il momento più duro?

«Le due bombe che hanno messo nella nostra sede di allora, in via Casati. Siamo subito ripartiti da zero, per fortuna tutti ci hanno dato una mano».

Qualcuno dice che Radio Italia sia come la Dc negli anni 70. Nessuno diceva di votarla ma poi prendeva il 30 per cento alle elezioni.

«Paragone azzardato. Comunque, per rimanere in tema, in parrochia dicevano di votare Dc. Ma in nessuna chiesa hanno mai invitato ad ascoltare noi».

Le canzoni più importanti della musica italiana?

«Dovrei nominare 20 pezzi di Baglioni, 15 di Renato Zero, 10 di Ramazzotti e via dicendo. Poi Battisti, Ferro, Modà. Non posso rispondere a questa domanda: o ti racconto una bugia oppure mi dimentico 500 titoli».

Ma ci sarà almeno un brano che non s’aspettava esplodesse.

«Quando Cecchetto mi ha fatto ascoltare Hanno ucciso l’uomo ragno degli 883, ho detto: “Ma dai, fa schifo”. Invece è stato un boom».

Al contrario, chi avete «sdoganato»?

«Prima di essere trasmesso da noi, Gigi D’Alessio era un fenomeno solo campano. Radio Italia ha anche organizzato il primo concerto di Alex Britti e dei Lùnapop. Abbiamo fatto le prime interviste a Pausini, Ligabue, Bocelli».

Bocelli e Ligabue non saranno in Piazza del Duomo.

«Tanti hanno impegni inderogabili. Però chi può venire, lo fa anche a costo di grandi sacrifici. Come la Pausini: che parte da Düsseldorf, arriva in Piazza Duomo e poi va a Francoforte».

Radio Italia ha un format chiarissimo: tutta la musica di una sola lingua. E all’estero come va?

«Dalla Spagna ci dicono che, dopo averci ascoltato, hanno fondato una radio come la nostra. In Francia non so.

Loro hanno una legge molto “protettiva” sulla musica francese».

Ma ci sono radio solo musica francese?

«Non lo so. Però è difficile. Noi possiamo farlo perché in Italia c’è una produzione più grande. E, detto tra noi, è anche una produzione bellissima».

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