Franchetti, le avventure di un imperialista inquieto

La spedizione in un territorio infernale. Il piano contro Hailé Selassié. E il mistero sulla sua morte

Franchetti, le avventure di un imperialista inquieto

Per capire meglio la personalità di Raimondo Franchetti, del quale Miska Ruggeri ha curato con intelligenza una nuova edizione di Nella Dancalia etiopica (Induna, pagg. 424, euro 25), resoconto della celebre esplorazione africana del 1929, si può partire dai nomi di battesimo dei figli: Simba, ovvero «leone» in swahili, era la primogenita; la sorella minore si chiamava Lorian, un fiore africano; Nanuk, l'orso bianco per gli Inuit, era l'unico maschio; Afdera, un vulcano dancalo, era l'ultima nata...

Di questa progenie, che negli anni Cinquanta del Novecento oscillerà fra i venti e i venticinque anni, Afdera e Nanuk saranno quelli con più glamour mondano-intellettuale, una comune amicizia con Ernest Hemingway, nata in Italia e poi consolidata in soggiorni cubani e americani; il matrimonio di Afdera con Henry Fonda, stella a lungo brillante del firmamento hollywoodiano, e il suo essere protagonista, in forma traslata, di un romanzo di Oriana Fallaci, Penelope va alla guerra...

Di quanto sopra Raimondo Franchetti, purtroppo per lui, non fece a tempo a vedere nulla: era morto nel 1935, durante un volo che dall'aeroporto egiziano di Almaza avrebbe dovuto trasportarlo in Eritrea, a Beilul, per l'esattezza. Era l'inizio di un'azione politico-militare a lungo vagheggiata, ma sempre rimandata: era un imperialista, Franchetti, un po' sull'esempio dei Rodhes, dei Kitchner, dei Gordon inglesi, ovvero tipi umani più a loro agio con la diplomazia delle cannoniere che con quella delle cancellerie, ma il suo essere italiano significava avere a che fare con un'idea di impero fragile e fuori del tempo massimo che la storia le aveva assegnato. Arrivata in ritardo al famoso struggle for Africa che per tutto l'Ottocento aveva ridisegnato la mappa del continente nero, l'Italia post-risorgimentale si era ritrovata fra i piedi i disastri abissini di Dogali, Amba Alagi, Adua a cui la vittoriosa guerra di Libia dell'«Italietta» giolittiana aveva messo un provvisorio cerotto. L'Etiopia, la sua conquista, era ora il grande sogno, ma fino ad allora il regime fascista era stato titubante e la sua politica coloniale altalenante.

Il trimotore militare S.81 con Franchetti a bordo, esplose poco dopo il decollo. Era l'aereo personale di De Bono, allora ministro delle Colonie, era stato da poco revisionato dopo le noie al motore che in un precedente viaggio avevano costretto a un atterraggio a Gallipoli. Si parlò naturalmente di un sabotaggio, la commissione d'inchiesta chiamata a investigare si trincerò dietro la formula che «la causa diretta della catastrofe» rimaneva «nella più profonda oscurità». Angelo Del Boca, il più autorevole storico dell'Africa orientale italiana, liquida l'ipotesi come «priva di alcun fondamento», ma è più perentorio della sua stessa fonte, ovvero Alessandro Lessona, altra figura importante della politica coloniale italiana: «Sabotaggio? Può essere, ma non abbiamo alcuna prova». Resta il fatto che l'allarme venne dato in ritardo, che i resti dell'aereo, a pochi chilometri dall'aeroporto di decollo, vennero anch'essi ritrovati dopo troppe ore, che Franchetti era inviso tanto ad Hailé Selassié quanto all'Inghilterra, che di quest'ultimo si atteggiava a protettrice... Sepolto, secondo le sue volontà, ad Assab, di fronte al Mar Rosso, nel 1971, scrive Miska Ruggeri nella sua introduzione, i suoi resti vennero traslati nel cimitero italiano di Otumilo (Massaua).

Si sarà capito che più che un esploratore nel senso puro del termine, Franchetti era un avventuriero, nonché un cacciatore. Nella Dancalia etiopica ha più valore esotico che scientifico, nel senso che affrontare il bassopiano dancalo era già di per sé un'impresa a cui i rilevamenti integrali di alcune zone, le individuazioni di nuove specie, pesci, insetti, aggiungono ben poco, propagandisticamente schiacciati come sono dal ritrovamento delle tombe dei 14 caduti della spedizione Giulietti-Biglieri del 1881... Il libro, del resto, è soprattutto farina del sacco di Alberto Pollera, antropologo e funzionario coloniale, le pagine del diario di Franchetti coprono solo gli ultimi cinque capitoli, e comunque più che di un'esplorazione quest'ultimo si mise a capo di una spedizione di tipo militare, con tanto di mitragliatrice al seguito, che alla fine lascerà sul campo undici morti, tra corrieri, guide e ascari, a fronte dei 14 razziatori Uoggerat rimasti sul terreno in un unico scontro...

Nato nel 1889, Franchetti aveva allora quarant'anni, era un bell'uomo, alto, solido, perennemente abbronzato, sicuro di sé. Non era sempre stato così. Collegiale, era stato uno studente svogliato, silenzioso e imbronciato, segnato dal cattivo rapporto fra il padre e la madre, dall'isteria e dall'irrequietezza amorosa della seconda (quattro mariti in rapida successione, molti amanti), dal lato bohémien quanto anaffettivo del primo. A quindici anni, la morte del nonno, barone di origine israelita sposato a una Rothschild, lo lascia erede di una ricchezza enorme: abbandona gli studi, inizia a viaggiare, Stati Uniti e Canada, fucili da caccia e macchina fotografica al seguito. Il ventenne che torna in Italia è un'altra persona: estroverso, amabile, buon raccontatore. Riparte per l'Oriente, la Malesia, l'Indocina, la Cina, poi finalmente l'Africa, Sudan, Kenya. Solo la Grande guerra interrompe questa girandola: volontario, senza diploma, sarà soldato semplice, poi caporale, verrà proposto per una medaglia d'argento...

Nell'Italia degli anni Venti, Franchetti potrebbe fare l'uomo di mondo: ha i soldi, ha le conoscenze, è fra l'altro intimo di Amedeo di Savoia-Aosta, si è appena sposato con Bianca Rocca, diciannovenne molto bella e molto aristocratica, la famiglia veneziana dei Mocenigo... È però un'Italia che continua a stargli stretta, mentre si trova perfettamente a suo agio sull'«altra sponda», quella cosiddetta orientale, Etiopia, Somalia, Eritrea, e dove il regime fascista vuole consolidare il proprio potere. Non è fascista, Franchetti, nel senso che gerarchia, ordine, disciplina non fanno per lui. È mussoliniano, che non è esattamente la stessa cosa, ma che sta a significare una seduzione reciproca. Per il Duce è un po' l'uomo nuovo chiamato a impersonare l'Italia fascista del domani, per il Barone, Mussolini è la politica come azione, decisione e sfida, niente intralci politico-diplomatici fra i piedi.

È in quest'ottica che all'inizio degli anni Trenta Franchetti propone la creazione di un servizio di intelligence, mascherato da credenziali scientifiche, e operativo all'interno del territorio etiope, composto da giovani, possibilmente ex ufficiali, pronti «a sacrificare, occorrendo, la propria persona».

Un'occasione per verificarne la praticabilità si verifica già nel 1932, quando Franchetti cerca di organizzare la fuga dell'ex imperatore Jasu, detronizzato da Hailé Selassié e relegato nella prigione dorata di Ficcé. Della partita è anche ras Hailù, capo del Goggiam, ricchissimo quanto potente: il piano prevede che da Ficcé Jasu se ne vada nottetempo e arrivi alla regione del Meccià, dove il quadrimotore di Franchetti provvederà poi a portarlo a Debrè Marcòs, roccaforte di Hailù e punto di partenza per la riconquista del trono perduto. Per più di un mese Franchetti aspetta che la fuga si concretizzi, ma ogni giorno che passa aumenta il rischio che in carcere possa finire lui: Hailé Selassié ha infatti subodorato la cosa e, come primo provvedimento, ha di fatto isolato ras Hailù e ridotto il suo peso politico... Per farla breve, Franchetti alla fine decolla da solo, quattro giorni prima che Jasu si presenti, già braccato, all'appuntamento, proprio lui, l'uomo che «perorava la costituzione di squadre di patrioti-suicidi», nota acido Angelo Del Boca... Francamente, la rampogna è un po' eccessiva, ma il fatto è che a quest'ultimo Franchetti non piace in alcun modo: lo trova sempre troppo sopra le righe, inutilmente bellicoso, borioso e, naturalmente, razzista. Di questo aspetto Nella Dancalia etiopica non reca però traccia e nei confronti degli indigeni non c'è la supponenza europea tipica di quegli anni. Nell'insieme, le critiche di Del Boca sembrano più esser dettate dal fastidio che provano i professionisti, che siano storici o che siano spie, ovvero «quelli che lavorano in silenzio, che nessuno conosce», nei confronti dei dilettanti alla Franchetti, i quali però «godono della illimitata protezione di Mussolini»... È insomma un Lawrence d'Arabia troppo privilegiato per essere vero...

Da questa lettura ostile, Miska Ruggeri si tiene saggiamente fuori, perché con tutti i suoi difetti, limiti e intemperanze Franchetti merita di essere raccontato: un italiano entusiasta, innamorato a suo modo dell'Africa, un po' guascone

e un po' soldato di ventura, politicamente ingenuo, ma non smanioso di potere personale, probabilmente superbo e spaccone, non sempre simpatico. Un tipo e forse un tipaccio. Gli inglesi gli avrebbero eretto un monumento.

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