Fumo, sesso, istinti matricidi. E poi Beckett uscì di scena

Maylis Besserie scrive un romanzo splendido e crudo dedicato agli ultimi giorni del grande drammaturgo

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«CARTELLA CLINICA Protocollo 835689. Samuel Beckett. Età: anni 83. Altezza 1,82 (6 feet). Peso: 63 kg (9.9 stone)».

Ci vuole un talento per scrivere un romanzo sugli ultimi giorni di Samuel Beckett, documentarsi, immedesimarsi, entrare nella testa e nel sentire del genio, e la scrittrice francese Maylis Besserie ce l'ha. L'ultimo atto del signor Beckett (Voland) coglie a pieno la poetica di Beckett incarnata nel corpo di Beckett, giunto allo stremo, malato di enfisema e di morbo di Parkinson, privato della presenza dell'amata moglie Suzanne, morta il 17 luglio del 1989. «Sam» morirà poco dopo, il 22 dicembre dello stesso anno, nella casa di cura «Le Tiers temps».

È un romanzo snello e crudo, non infiocchettato da niente di consolatorio, di un'autrice che ha studiato opere e epistolario e mette in scena una narrazione estrema beckettiana che il silenzio estetico e esistenziale a cui era giunto Beckett non avrebbe potuto fare.

Tutto è pesante, tutto è corpo, biologia estrema, lotta per la sopravvivenza con se stessi (come è sempre stato in Beckett), fatica in ogni singolo atto, finale di partita reale non più letterario. «Bisogna continuare, non posso continuare, continuerò», come diceva L'innominabile, ma l'innominabile è diventato lui stesso. Beckett la sera legge e scrive, o meglio prova a scrivere, non riuscendo più bene a tenere in mano la penna. Beve meno alcol del solito, nonostante la malattia non ha smesso di fumare (a che pro ormai? Mica era scemo).

Nella clinica c'è un giardino. «Mi adeguo al nome che gli danno. L'erba in giardino è di plastica, verde, antiscivolo. Un'erba finta su cui camminare come fosse vera, anche se non lo è, dal momento che non ci si può sdraiare. Comunque se sono in giardino è merito dell'erba». Ogni passeggiata è una conquista («Cammino, nonostante tutto; oddio, forse è eccessivo dire che cammino»), per sentirsi ancora vivo, come un personaggio delle sue opere, dopo aver fatto fisioterapia. «Stamane sono un po' sul precario. L'ha detto quello che viene tutti i giorni a farmi lavorare sulle gambe: signor Beckett, stamane è un po' sul precario. Ma gli esercizi li ho fatti. Li ho eseguiti al meglio. Ho alzato una gamba, l'ho riabbassata. Ho ricominciato tante volte, tante quanto lui ha voluto. Stesso dicasi per l'altra. Con l'altra è più difficile. Eppure ho sollevato anche quella, o almeno mi sono incaponito, sebbene lei resista. Ciò nondimeno, la alzo, la riabbasso. Fallisco, e ricomincio».

Restano i ricordi, ricordi degli incontri alcolici con Joyce, o con il suo amico Tom. «Mi ubriacavo come un animale. Da perderci gli occhiali, da cadere in qualsiasi fosso, da rovesciarmi - un eremita che abbandona il voto di silenzio eterno. Sbronzo fesso e contento. La mente vuota per il troppo pieno. () Mi torna in mente ora che sono vuoto. Che non so più scrivere. Che non scrivo più. Quasi più».

Di nuovo in giardino, a fare due passi, anche se «questo giardino trasuda di piscio. Fiumi di piscio di vecchio scorrono sull'erba finta. Fosse stata vera, sarebbe ingiallita. Per fortuna è di plastica. Ha mantenuto il suo colore. Un'innaffiatina e niente più. In compenso, contro il tanfo non c'è niente da fare. Niente da fare comunque». La Besserie è stata abile nel tessere parole reali di Beckett (prese da veri materiali, anche autobiografici) in un romanzo che fila come un filo spinato.

Non vuole essere toccato, Beckett, cerca di non essere sorretto, non sempre ci riesce. Cerca di rispondere alle lettere che riceve ma non ha più parole. «Le ho usate tutte quante fino all'osso. Non si direbbe, ma le parole si consumano. Come il culo dei pantaloni. Come il cuore. Quante me ne restano in realtà? Poca vecchia roba. Rispondo spargendo i miei poveri avanzi». Cervello sempre più confuso, tremori. Risposte alle ultime lettere come telegrammi dal nulla: «Caro amico, grazie per questa tua - stop - Con affetto».

L'ultimo Beckett pensa a quando faceva sesso, cioè al fuck. «Spesso mi dedicavo al fuck con veritiero impegno. Attività a lungo classificata tra i miei sport preferiti insieme al cricket e alla bicicletta, giustificava almeno un minimo la condanna di esistere». Pensa al suo cervello indebolito. Pensa a sua madre, a quello che ha subito. Pensa alla malattia della vita. Pensa che avrebbe potuto uccidere sua madre. «Ne ho avuto occasione mille volte. Sarebbe bastato un cuscinetto. Tenuto fermo fermo. In silenzio. Giusto qualche minuto. May non avrebbe sofferto. O non a lungo. Le avrei risparmiato quell'esistenza lunga. A pensarci bene, sarebbe stato un atto meno turpe di quanto non sembrasse. Anche per lei.

Una liberazione insperata». Ma pensandoci bene no, «per non sbagliare avrei dovuto ucciderla prima di essere nato - impossibile naturalmente. Oppure mentre nascevo, perché no? Sarebbe stato l'ideale. Una nascita caritatevole: la luce e il buio».

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