Cultura e Spettacoli

Genio in un'Italia di zombie. L'avanguardia era (solo) lui

Un romanzo capolavoro negli anni Sessanta e tante prese di posizione controcorrente. Raffinato e libero

Genio in un'Italia di zombie. L'avanguardia era (solo) lui

Ieri non è morto solo un grande scrittore ma il più grande scrittore italiano, il più citato e anche il meno letto dalle varie combriccole letterarie. Se lo avessero letto, avrebbero capito di essere già stati macinati con mezzo secolo di anticipo nel suo capolavoro, Fratelli d'Italia, la prima edizione è Feltrinelli, 1963.

In realtà Alberto Arbasino non c'era più da tempo, a causa di una lunga malattia, e quanto ci mancava già da vivo. I capolavori li aveva già scritti, tutti ristampati da Adelphi (grazie Adelphi), ed era già stato storicizzato nei Meridiani Mondadori (dove però c'è pure Eugenio Scalfari, vabbè), ma ogni tanto saltava fuori un pamphlet delizioso e pungente, oppure un articolo su Repubblica o sul Corriere della Sera, da leggere e conservare.

Quattro anni fa mi accorsi che c'era qualcosa che non andava, ero con la mia amica giornalista Laura Cervellione in un bar romano e discutevamo di letteratura, e io le parlavo di Arbasino, e così, di punto in bianco, decidemmo di andare a trovarlo, perché la Cervellione è pazza come me. Comprammo una piantina di begonie, andammo a via Gianturco, suonammo al campanello dove c'era scritto A.A., e alla voce che disse «Chi è?» dissi «Parente!». Un filippino ci fece salire e entrare e mentre ci spiegava che il signore stava riposando all'improvviso da un corridoio spuntò fuori lui, in vestaglia. Il filippino disse al signore: «C'è questo suo parente». «No, non sono un parente. Massimiliano Parente, ci siamo scritti molte lettere» dissi a Arbasino. Arbasino mi venne incontro, accennò un sorriso, prese la piantina e si allontanò nel buio ripetendo meccanicamente «Grazie, grazie, grazie». Arbasino già non c'era più.

Avantissimo, da sempre, come pochi altri, Arbasino l'avanguardia se l'è fatta da solo, come tutti i grandi scrittori, pur avendo partecipato al Gruppo 63, di cui non è rimasto niente, solo Arbasino. Perché mentre gli altri cazzeggiavano con gli avanguardismi facili (pensate ai libri sperimentali di Nanni Balestrini, chi se li legge più), lui aveva delle opere immense, perfino le minori, come Paesaggi italiani con zombi, erano gioielli preziosissimi. Non è mai stato di destra, ma neppure si è mai intruppato nella salotteria stereotipata di sinistra: Pier Paolo Pasolini, pur suo amico, negli anni Settanta gli dava del fascista perché Arbasino vedeva con sospetto i movimenti studenteschi rivoluzionari. I fascisti d'altra parte non se la sono mai presi con lui perché era troppo complicato per loro.

Non c'è mai stato nulla di più sacro della letteratura, per Arbasino, e per questo nulla di più dissacrabile. A dire il vero non c'è mai stato nulla che non potesse essere oggetto della sua ironia, perché ai suoi occhi tutto rimandava a qualcos'altro, ogni farsa diventata tragedia era frutto di un'altra farsa precedente. «Corsi e ricorsi» era il suo motto e la sua chiave di lettura del mondo.

Per leggere i suoi libri bisogna aver letto migliaia di libri (e non libri qualsiasi, i «libri giusti», come diceva lui), altrimenti non coglieremo mai l'ironia, il gusto del pettegolezzo, della citazione criptata, della demistificazione sistematica. Arbasino aveva letto tutto, tutto ciò che è culturalmente importante, tutti i classici, tutti gli strutturalisti, e con la sua lingua modernissima è stato il fustigatore del provincialismo italiano.

È stato tra i primi a accorgersi della grandezza di Carlo Emilio Gadda, di cui diventò amico e di cui amava definirsi il nipotino. Enciclopedico, ma non come Bouvard e Pécuchet, casomai era nipotino anche di Flaubert. Nelle scuole andrebbe adottato come testo di studio il suo Certi romanzi, per non sbadigliare ma ridere davanti ai cip cip di Pascoli e apprendere da Verga una cosa quanto mai attuale, «che merita le più atroci condanne: il fidarsi ciecamente della saggezza dei popoli, l'assumere come misura il cosa dirà la gente». Siccome all'estero lo conoscono poco, perché noi esportiamo solo la letteratura più semplice, più traducibile, più innocua, non si sono mai accorti che l'unico vero romanzo definibile postmoderno (se l'etichetta «postmoderno» ha un senso) lo ha scritto Alberto Arbasino. Anzi non solo scritto, ma anche riscritto, perché per ben tre volte ha messo mano a Fratelli d'Italia, aggiornandolo continuamente, facendolo diventare una miniera senza fondo. Voglio dire: un romanzo, un vero romanzo, che ha come trama i romanzi, nessuno ha mai raggiunto una vetta così alta, neppure l'idolatrato mostro di postmodernità David Foster Wallace. Il protagonista era lui, chiamato dagli amici l'Elefante, che tra una discussione e l'altra, sempre coltissime, non disdegnava di corteggiare affascinanti aviatori, un'omosessualità vissuta negli anni Sessanta senza tante lagne e vittimismi, con assoluta normalità, cioè Arbasino non si è mai posto il problema, troppo colto anche lì per farsene uno in merito. Così come non si è mai posto il problema della sua condizione economica privilegiata. In un paese di neorealisti in cui per essere un intellettuale rispettato dovevi venire dal basso e occuparti della classe operaia, il nostro fratello d'Italia appena trentenne poteva permettersi di iniziare il suo capolavoro così: «Quest'anno la laurea si rimanda ancora di una sessione (ma praticamente gli esami li ho finiti tutti), la MG nuova me l'hanno presa lo stesso, celeste-pervinca come i miei occhi, deliziosissima. Come del resto è anche giusto: tanto mio papà ha più di dieci milioni di franchi al Crédit Suisse, e in casa siamo pochissimi». E questo in un paese ancora neorealista dove era obbligatorio muoverti tra accattoni e ladri di biciclette, e non è che culturalmente oggi sia cambiato poi tanto.

Insomma, corsi e ricorsi, purtroppo adesso senza più Arbasino a ricordarcelo.

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