Cultura e Spettacoli

Guerra, pandemia, crisi. Isolarsi è una tentazione

"Start" dedica un numero al mondo che sembra meno connesso: ma il protezionismo è un errore

Guerra, pandemia, crisi. Isolarsi è una tentazione

«Sglobalizzazione» è una brutta parola ma rende l'idea. Nel 1990, i russi, usciti dall'incubo sovietico, facevano la fila per entrare da McDonald's a gustare (ehm) il cibo dell'ex nemico, l'hamburger con patatine. Poche settimane fa, la popolare catena se ne è andata dalla Russia. Fast food go home. Forse avevamo dato per scontato che la globalizzazione sarebbe stata a trazione occidentale, visto lo strapotere apparente degli Stati Uniti dopo la fine dell'Urss. Forse avevamo dato per scontato che là dove passavano le merci non sarebbero più passati i carri armati. Forse avevamo dato per scontato che i popoli lontani, visti da vicino, fossero tutti amabili e disposti ad abbracciare i valori dell'Occidente. Forse avevamo dato per scontato che fossimo d'accordo, tra noi, su quali fossero in effetti i nostri valori. Forse avevamo dato per scontato che fosse giusto chiudere un occhio sul mancato rispetto dei diritti umani in Cina, perché il capitalismo, oltre a spalancare un mercato enorme con reciproca convenienza, alla fine avrebbe portato con sé, oltre alla Coca Cola, anche un po' di liberal-democrazia; e invece la Cina si è presa il capitalismo e ha rispedito al mittente la liberal-democrazia.

Ora una serie di eventi ha fatto emergere contraddizioni e illusioni. Prima la fuga rovinosa dall'Afghanistan, un'ammissione implicita di debolezza che ha fatto salire le quotazioni e le ambizioni di potenze locali (si fa per dire) quali la Cina e l'India. Poi la guerra in Ucraina dopo una escalation negativa nei rapporti tra Russia e Nato, nonostante i forti legami economici. Infine Taiwan, con i cinesi che fanno esercitazioni militari a pochi chilometri dalla costa prima di trasferirsi per cooperare con l'esercito russo in giochi di guerra congiunti. La globalizzazione, un processo che viene da lontano, ha avuto molti aspetti positivi, su scala planetaria: aspettativa di vita più alta, minore povertà, alfabetizzazione in aumento, innovazione tecnologica, generale crescita economica con i Paesi un tempo «in via di sviluppo» ormai diventati forze trainanti. La globalizzazione aveva però mostrato anche i suoi lati negativi. Gli operai europei avevano imparato il significato amaro della parola delocalizzazione. Abbiamo visto un virus prendere l'aereo per abbandonare la Cina e diffondersi nel mondo intero. Abbiamo capito che le crisi di sistema (finanziario, cibernetico, sanitario) coinvolgono tutti, direttamente o indirettamente. Ora però assistiamo anche a qualche scenario imprevedibile, almeno agli occhi dei normali cittadini: catene di approvvigionamento in tilt, competizione per le materie prime e reshoring, ovvero il ritorno delle produzioni industriali nei Paesi d'origine delle aziende. In una parola: sglobalization o deglobalizzazione.

Questo, per sommi capi, è il contenuto dell'ultimo numero del quadrimestrale Start diretto da Pierluigi Mennitti, con interventi di Giuliano Cazzola, Vittorio Macioce, Vittorio Emanuele Parsi e tanti altri. Titolo: Sglobalization. Si può ben utilizzare per cercare spunti non scontati sul nostro presente e consigliamo di leggerla assieme alla Rivista di politica diretta da Alessandro Campi, che presenta un ricco e non ideologico dossier sulle conseguenze della guerra in Ucraina, un momento spartiacque non solo per la Russia ma anche per l'Unione europea e l'alleanza atlantica.

Dunque la globalizzazione è impazzita? Attenzione a non cadere nell'errore di darla per spacciata, sottovalutandone la capacità di adattarsi ai cambiamenti. I correttivi sono già allo studio. Scartato il ritorno al protezionismo, prende quota un modello differenziato: massima connessione tra società aperte e ridotta all'essenziale con i regimi autoritari.

Un'altra globalizzazione è possibile? Per dare una risposta occorre dare anche un'occhiata in casa propria, dove cresce la rabbia, come scrive Macioce, contro «i valori fondanti della nostra civiltà. Lo stesso capitalismo, allargando i confini, ha smesso di riconoscersi nella democrazia e nella libertà». Estrema destra ed estrema sinistra hanno sempre contestato, per motivi diversi, il capitalismo. Ora però non è più solo una questione di opposti estremismi e questo vale per l'intero Occidente. Quanti sono i partiti che si rifanno alla tradizione liberale? In quale agenda di governo si valorizzano l'individuo e l'impresa? Quale forza politica rivendica la limitazione dell'ingerenza dello Stato in ogni settore della vita pubblica e privata? L'Italia è in campagna elettorale: chi sta parlando di logistica, tecnologia, sistemi energetici, cybersicurezza, demografia, alleanze e altre quisquilie da cui dipende il nostro futuro? Si è posta grande enfasi sulla necessità dell'Unione europea ma qualcuno ha forse chiesto a Bruxelles un cambio di passo o di fare chiarezza nei rapporti col resto del mondo a partire dai nostri partner storici? Qualcuno, come si interroga Parsi in Start, ha intenzione di capire quale sia la reale politica della Germania: fa per sé o intende essere la locomotiva del Vecchio continente? Evitiamo di dare una risposta a tutte queste domande.

Per non deprimerci.

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