I Muse si immergono nella realtà virtuale. "Il nostro rock tra Carpenter e chitarre"

Esce l'album «Simulation theory». A luglio concerti a San Siro e Olimpico

I  Muse si immergono nella realtà virtuale. "Il nostro rock tra Carpenter e chitarre"

In fondo i Muse sono un universo parallelo. Rock band, certo, ma capace di fare i conti con la cultura. Popolari, ovvio, però ciascuno di loro non si spalma su ogni social 24 ore su 24. E anche coraggiosi, se non altro perché continuano a produrre quell'entità storica ormai purtroppo in via di estinzione: i dischi.

«Dopo tre album con canzoni molto lunghe, addirittura fino a 7/8 minuti, stavolta abbiamo voluto pezzi più brevi», spiega il cantante chitarrista Matthew Bellamy con la sua solita parlantina a cento all'ora presentando i brani del nuovo Simulation theory, che esce la prossima settimana e poi sarà accompagnato da un tour mondiale che in Italia si fermerà a San Siro il 12 luglio e all'Olimpico di Roma il 20 (piccola anteprima il 13 dicembre alla finale di XFactor su Sky). Stavolta siamo più sperimentali e più profondi nei suoni, il precedente Drones era più monodimensionale» aggiunge il bassista Chris Wolstenholme. Ri-precisa Matthew: «La prima parte del disco dà il senso di essere intrappolati nella realtà, nella seconda siamo più ottimisti e troviamo una via di fuga».

Il centro di tutto è la tecnologia, la sua invasività e pure anche i piaceri che regala: «Mentre registravamo, ho iniziato a usare un visore per la realtà virtuale. Non usavo videogame da decenni e mi sono ritrovato in una realtà parallela. Così mi è venuto il paragone con i social media, che obbligano le persone a vivere in una dimensione rinchiusa nello smartphone». Insomma, Simulation Theory è una struttura rock che si allarga con l'uso di molti synth fin quasi a ricostruire un suono nuovo ma legato agli anni Ottanta: «Siamo cresciuti in quel decennio - dice il batterista Dominic Howard - con le colonne sonore dei film di John Carpenter e con Alien, Blade Runner, Predator, i film dell'orrore o i B-movies. Stavolta sugli schermi dello studio di registrazione ne abbiamo fatto trasmettere parecchi: non seguivamo la trama, ma le immagini e le atmosfere di sicuro ci hanno influenzato». Il riassunto si può vedere anche sulla copertina del disco, una sorta di movie poster («È stata una mia idea» dice orgoglioso Dominic) nel quale ci sono i tre della band e immagini o personaggi presi dai loro video (ogni canzone è accompagnata da un video). In poche parole il disco si distingue dal precedente sicuramente nelle sonorità ma pure nell'apparente mancanza di autentici «anthem», inni da cantare ai concerti ma anche capaci di resistere nelle playlist radiofoniche. Per carità, fa poca differenza per una band che ha vinto 2 Grammy Awards, ha venduto 20 milioni di dischi ed è tra le più giovani a riempire gli stadi in tutto il mondo con il suono di strumenti suonati per davvero (sembra un paradosso ma non lo è).

Dopotutto siamo in una fase di profonda mutazione non soltanto della musica, come è sempre stato, ma anche dei modi di ascoltarla. Ad esempio, come conferma Chris, «spesso i giovanissimi non sanno più neppure cosa sia un album e bisogna accettare i nuovi modi di fruizione. Io sono nato con gli album ma non voglio essere troppo nostalgico».

In sostanza, tra le righe, ammette che forse anche loro, pubblicando l'ottavo album, prendono in considerazione l'idea di pubblicare in futuro tanti brani a poca distanza l'uno dall'altro. Più che un ritorno agli anni Ottanta, sarebbe un ritorno ai Sessanta.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica