In fondo ci sono vittorie celebrative e vittorie simboliche. Il Nobel a Bob Dylan ha celebrato al massimo il valore letterario ampiamente riconosciuto dei suoi testi. Il Pulitzer per la musica a Kendrick Lamar è invece il simbolo finora più alto del rilievo che il rap ha raggiunto nel racconto della realtà americana. Non a caso, dal 1943 (anno nel quale si assegna il Pulitzer anche ai musicisti), nessun autore di musica leggera contemporanea ha mai ricevuto il Pulitzer, quindi neppure un rapper. Fino a ora sono stati premiati soltanto i compositori classici oppure i jazzisti, a conferma di una visione (bisogna dirlo) estremamente elitaria dei valori musicali, quasi che il pop o il rock o il rap fossero soltanto espressione di sotto valori o sotto culture non capaci di rendere appieno lo spirito del tempo.
Lo ha vinto grazie al disco Damn uscito l'anno scorso, che non è musicalmente il suo migliore perché ha meno citazioni jazz o funk ed è più vicino allo spirito «gangsta» nel quale il quasi trentunenne Kendrick Lamar Duckworth è cresciuto nella sua Compton, uno dei sobborghi più caotici e guerriglieri di Los Angeles, lo stesso dal quale arrivano i NWA, quei «Niggaz wit attitudes» di Fuck tha police che fu addirittura messa sotto controllo dall'Fbi. Secondo la giuria, Damn è «una pietra miliare messa a segno per la capacità di raccontare l'esperienza afroamericana, una collezione virtuosa di canzoni accomunate da vernacolare autenticità e da dinamiche ritmiche con aneddoti ficcanti in grado di catturare la complessità della vita moderna». Non c'entra quindi il «flow», il flusso delle rime cantate.
C'entrano le parole.
A far la differenza sono stati i testi delle canzoni, stavolta meno incentrati sull'individuo ma più vicini a una ricerca spirituale che raggiunge profondità capaci di sbriciolare qualsiasi luogo comune che (ancora) zavorri il rap. La paura della morte, ad esempio. Oppure la religione come casa del dubbio e non della fede a tutti i costi.
Tanto per capirci, in Damn, Kendrick Lamar cita il Deuteronomio che racconta gli Ebrei nel deserto del Sinai, cita la Lettera di Giacomo e passi della Bibbia. Insomma, un lavoro complesso, molto più articolato e stratificato di quanto la vulgata possa accettare quando si parla di rap. Oltretutto, giusto per confermare l'indubbia penetrazione del linguaggio di Lamar nei giovani americani (ma non solo, anche in Italia è una star), il disco Damn è stato uno dei più venduti negli States nel 2017 e tutto il parterre du roi del pop gli ha baciato la pantofola, da Rihanna (che canta con lui in Loyalty) a Lady Gaga, che gli ha telefonato, a Bono, che gli ha insegnato a fuggire le tentazioni della fama, alla più grande popstar degli ultimi anni, Barack Obama, che gli ha pubblicamente detto «stai andando alla grande». Ora che il nome di Kendrick Lamar si affianca agli altri Pulitzer musicali come Duke Ellington, George Gershwin, Thelonious Monk e John Coltrane, ovviamente si apre un'altra era e quindi qualsiasi amante della musica popolare dovrebbe festeggiare.
Tra l'altro, manco a dirlo, Kendrick Lamar è un talento assoluto, non una meteora dalla traiettoria esigua. Quattro album. Dodici Grammy Awards. L'iscrizione, decisa dal magazine Time, tra le cento persone più influenti del pianeta. E infine una rispettabilità difficile da rintracciare in altri musicisti di breve (finora) carriera come lui. Molto più velocemente che in qualsiasi altra epoca, Kendrick Lamar ha ricevuto la consacrazione «letteraria» del salotto che conta, quello intellettuale, politicamente non schierato ma culturalmente molto più rilevante di quanto possa sembrare a prima vista.
E a dargli una mano è stata senza dubbio anche la colonna sonora di Black Panther, il film dagli incassi colossali prodotto dalla Marvel. Kendrick Lamar l'ha curata per intero dopo aver accettato di produrre soltanto qualche brano. E se ne è così innamorato da averci suonato, aver chiamato a collaborare alcuni amici musicisti della Top Dawg ed essersi speso in interviste e promozione, quasi che quel film legato alla rivendicazione di diritti essenziali fosse un'altra appendice della propria personalità.
«Io sono rimasto quello di sempre» dice lui oggi e può essere anche vero perché chi viene dalla vera gavetta non perde quasi mai l'orizzonte della dignità. Però, da oggi, non è più soltanto una star di talento ma un punto di svolta, quello che ha portato il rap tra le pagine della storia giornalistica e letteraria.
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