Dietro ogni grande successo c'è un grande fallimento, dietro l'ingresso nella vita reale c'è il potere dell'immaginazione. Consigli ai laureati da una laureata di lungo corso, di enorme successo e dall'immaginazione straordinaria; ma passata, per una decina d'anni, attraverso un «fallimento clamoroso» e la realtà, molto prosaica, della povertà.
Si intitola Buona vita a tutti, in inglese Very good lives, il nuovo libro di J.K. Rowling. Rispetto ai volumi di Harry Potter è in realtà un libricino (ottanta pagine), pubblicato come sempre da Salani (dieci euro, in libreria da lunedì 20 novembre) ed è il testo del discorso pronunciato dalla scrittrice inglese all'università di Harvard, nel 2008. Una situazione nella quale, spiegò allora la mamma del maghetto, si convinse di essere «al più grande raduno al mondo dei Grifondoro»: stendardi rossi, cappellini, salone d'onore. Giusto per non emozionarsi troppo, perché il discorso ai laureati dei grandi atenei americani (il commencement speech) è una tradizione prestigiosa, e in qualche caso è diventata anche storica, come quando Steve Jobs a Stanford pronunciò il famosissimo «Stay hungry, stay foolish».
Il titolo del libro si ispira a Seneca: «Come un racconto, così è la vita: non importa che sia lunga, ma che sia buona». L'unico altro autore citato è Plutarco, e c'è un motivo: la Rowling si è laureata in Lettere classiche, contro la volontà dei suoi genitori. I quali non avevano fatto l'università, erano stati poveri e non desideravano altrettanto per la figlia. «Convengo con loro che non è un'esperienza nobilitante. La povertà comporta paura, stress e in certi casi depressione; impone mille piccole rinunce e umiliazioni. Uscirne con le proprie forze, di questo sì che si può andare fieri, ma solo gli sciocchi vedono nella povertà qualcosa di romantico». Insomma la Rowling era convinta di volere scrivere romanzi nella vita, ma i suoi genitori la consideravano «una simpatica stravaganza»: certo, a posteriori «un'ironia», ammette lei, che con i suoi romanzi è diventata più ricca di Sua Maestà. Eppure, prima di questo «lieto fine», c'è stato un periodo molto lungo di buio. E quindi, sempre a posteriori, la Rowling ha provato a rispondere a due domande: «Cosa avrei desiderato sapere il giorno della mia laurea e quali importanti lezioni ho imparato nei ventun anni trascorsi da quel giorno».
Le risposte sono in quelle due parole: fallimento e immaginazione. Il fallimento, questo i neolaureati dell'élite devono saperlo, ha grandi «benefici». Non è una passeggiata, ed è normale temerlo: «A spaventarmi più di tutto, alla vostra età, non era tanto la miseria quanto il fallimento». Che significava prendere un voto basso, o essere bocciata a un esame. «Il fatto che vi stiate laureando a Harvard lascia pensare che non conosciate tanto bene il fallimento. A motivarvi potrebbe essere la paura del fallimento, tanto quanto il desiderio di successo». Il metro per misurare il disastro è personale, ma il mondo è «piuttosto ansioso di fornirti un insieme di criteri, se glielo permetti». Secondo questi criteri, e anche secondo i suoi personali, a sette anni dalla laurea la Rowling aveva «già fallito clamorosamente»: un matrimonio «imploso», niente lavoro, una figlia da mantenere da sola. «Non conoscevo nessuno più fallito di me».
A che cosa è servito cadere così in basso? «Mi costrinse a eliminare tutto ciò che era superfluo. Smisi di illudermi di essere qualcosa che non ero e presi a incanalare ogni mia energia nel portare a termine l'unico lavoro che mi stava a cuore». Scrivere romanzi. Perciò è andata così: «Con il realizzarsi della mia più grande paura mi ero ritrovata libera, ero ancora viva, avevo una figlia che adoravo, avevo una vecchia macchina da scrivere e un'ottima idea». Il fondo è diventato la base «solida» su cui ricostruire. Il fallimento offre doni inaspettati: sicurezza interiore, conoscenza di sé e anche degli altri e dei rapporti con loro. «Da quel momento in poi, sarete certi della vostra capacità di sopravvivere». Poi, per sopravvivere bene, serve anche l'immaginazione. Non solo in senso creativo, come «fonte di ogni invenzione e innovazione»: «Nella sua qualità forse più trasformativa e rivelatoria, è la forza che ci consente di provare empatia per esseri umani di cui non abbiamo mai condiviso le esperienze». Una capacità che la scrittrice ha sviluppato prima di Harry Potter, lavorando, ventenne, nel dipartimento di ricerche sull'Africa di Amnesty International, a Londra.
Lì, leggendo le lettere clandestine, le testimonianze dei prigionieri politici e degli esiliati, vedendo le immagini delle torture, ha capito quanto fosse «incredibilmente fortunata» a vivere in un Paese democratico, e anche quanto possa fare - in positivo - il genere umano, quando riesce a immaginarsi al posto degli altri. «Non occorre la magia per trasformare il mondo. Dentro di noi abbiamo già tutto il potere che ci serve: il potere di immaginarlo migliore». Questo i lettori di Harry Potter lo sanno.
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