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L'ospedale diventa battaglia politica: cosa c'è dietro Grey's Anatomy

Dal diritto alla sanità pubblica alla lotta alle armi la politica irrompe in corsia. Ma la rincorsa al politicamente corretto finisce per arrotarsi su se stessa

L'ospedale diventa battaglia politica: cosa c'è dietro Grey's Anatomy

Lo ammetto subito: sono un fan di Grey's anatomy. Sin dalla prima puntata, quando la specializzanda Grey conosce (per caso) il bellissimo Derek Shepherd. Credo di non averne mai persa una. E, se l'ho fatta, ho sempre recuperato con le repliche. Siamo giunti alla diciassettesima stagione, girata in piena pandemia Covid-19, e non mi ha ancora stancato nonostante la trama sia sempre più o meno tutta uguale (ad eccezion fatta degli intrighi amorosi) e i cataclismi che di tanto in tanto si abbattono su Seattle sono un tantino fuori dal comune e irreali. Ma è fiction, quindi va benissimo così.

Da una serie tv non ci si aspetta granché. È intrattenimento, niente di più. Letalmente anestetizzante, come potrebbe intenderlo David Foster Wallace, e al tempo stesso sapientemente improntato sui buoni sentimenti (l'amore, il perdono, l'amicizia e così via). Un prodotto confezionato ad hoc per piacere ed essere guardato. È anche per questo che, ai tempi di Netflix, Amazon Prime e piattaforme di streaming varie, che sfornano titoli nuovi ogni settimana, è riuscita a mantenersi in vita. Mi vengono in mente soltanto i Simpsons con la stessa longevità. Il cartone di Matt Groening è andato in tivù per la prima volta il 17 dicembre 1989, totalizzando quasi il doppio delle stagioni realizzate da Shonda Rhimes. Ma torniamo a Grey's anatomy e a come questa serie tv è cambiata con il passare degli anni. Nelle ultime stagioni, sebbene la trama sia sempre simile a se stessa (decessi improvvisi e cambi di partner a parte), le puntate hanno subito dall'autrice, che l'anno scorso ha prodotto anche Bridgerton (successo Netflix non certo immune al politicamente corretto), un'impronta sempre più politicizzata riflettendo la stessa pericolosa piega che sta ormai prendendo Hollywood.

Ovviamente una delle battaglie principe della serie tv è il diritto alla sanità pubblica. Un tema molto sentito negli Stati Uniti che, durante l'amministrazione Obama, è stato ampiamente cavalcato dalla Rhimes. Nell'ultima stagione è stato dato ampio spazio alle sirene stonate dell'anti trumpismo. Le tesi dei Black Lives Matter ha portato un cortocircuito interno alla produzione che ha denunciato le alte percentuali di decessi Covid all'interno delle comunità afroamericane, dimenticando che il virus ha colpito maggiormente tutte le minoranze.

Tra i totem da abbattere la Rhimes annovera anche il diritto a possedere le armi e l'accoglienza agli immigrati (anche clandestini). Entrambi i filoni narrativi ritornano ossessivamente nella sceneggiatura di Grey's anatomy dove persino la famiglia viene passata sotto una visione ideologica. Il concetto in sé viene minato alla base. Non c'è un matrimonio che regge. Mai. Tra le corsie e i reparti del Grey+Sloan Memorial nascono e muoiono amori con estrema facilità. E con la stessa velocità passa qualsiasi convivenza (benedetta o no). In questo modo le parentele e i legami si complicano, facendo del tutto impallidire gli sceneggiatori delle soap americane degli anni Ottanta. In questo caos narrativo i figli, che non hanno mai un ruolo da protagonisti, vengono sballottati da un genitore all'altro. È l'esagerazione della disgregazione della società moderna. A livello statistico, infatti, gli ideatori di Grey's anatomy dovrebbe mettere pure la quota "famiglia che dura". Con Meredith Grey ci erano andati vicino (anche perché non si poteva permettere una rottura nella coppia più amata della serie tv), salvo poi far stirare Derek Shepherd in un assurdo incidente automobilistico. Alla fine il concetto che passa è che c'è famiglia laddove ci sono due o più persone che si vogliono bene e vivono insieme.

Un'attenzione particolareggiata, poi, viene data all'inclusività. Nulla da obiettare, qui, se non che questa crociata viene costantemente sbandierata come arma politica. È lampante che nella stesura della trama della serie tv Shonda Rhimes presti particolare attenzione alle cosiddette "minoranze" o "gruppi sottorappresentati". Le persone di colore, innanzitutto. Ma anche esponenti del mondo LGBT. E persino persone con disabilità cognitive o fisiche. Sono gli stessi parametri che gli Oscar hanno dato ai registi che vogliono concorrere a vincere un premio. Ma anche in questo caso i personaggi sono sbilanciati. Nel profondersi nella lotta a sostegno dei diritti degli afroamericani, la serie tv si "dimentica" di tante altre comunità. Gli asiatici, per esempio, sono una minoranza sparuta e le parti a loro assegnate sono del tutto marginali. E che dire dei sudamericani? Neanche l'ombra. Le storture imposte dalle manifestazioni dei Black Lives Matter, che a Hollywood hanno portato a follie anti storiche, si scontrano con l'impossibilità di rappresentare tutte le "minoranze" e i "gruppi sottorappresentati". Per farlo bisognerebbe avere un cast chilometrico e mettersi col bilancino per distribuire parti in base al colore della pelle, dell'orientamento religioso, dell'estrazione sociale, dei gusti sessuali e così via. Con buona pace dell'autrice la maggior parte delle scelte da lei fatte hanno un forte imprinting politico. E il fine non è certo un bene superiore.

Col rischio che questa estenuante rincorsa al politicamente corretto finirà per svilire del tutto il senso ultimo della serie tv in sé: l'intrattenimento.

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