Concupiscenza libraria si intitola questo libro dedicato all'attività di recensore di Giorgio Manganelli (Adelphi, pagg. 454, euro 24). Ci sarà ancora spazio per un secondo volume altrettanto corposo, perché nei quaranta e passa anni in cui si dedicò a questo esercizio, più o meno dal 1946 in cui esordì al 1990 in cui morì, Manganelli incarnò al massimo grado l'idea del critico come sommo sacerdote della letteratura da un lato, come scismatico fondatore di una nuova religione dall'altro, lo scrivere di libri e sui libri come genere letterario a sé dove l'oggetto recensito e il soggetto recensore avevano pari dignità e spesso il primo era un pretesto per dare sfogo al secondo. In quel lungo arco di tempo, inoltre, Manganelli, come nota con una bella immagine Salvatore Silvano Nigro nella sua postfazione, calcò «la scena di riviste e quotidiani in una tournée grandiosa che ha compreso tappe che vanno da Il Giorno, L'Illustrazione italiana e Il Mondo, a L'Espresso, Epoca e L'Europeo, il Corriere della Sera, La Stampa, Il Messaggero» e insomma se non il meglio, non ci siamo noi del Giornale, non c'è Repubblica, quanto nondimeno al meglio si avvicinasse.
Questo elenco permette qualche amara riflessione sulla critica letteraria come genere, di là da testate purtroppo defunte e da altre che suonano ormai un pallido eco di antiche glorie. Stiamo parlando di un mondo scomparso, pressoché mitico se visto con gli occhi dell'oggi, il giornalismo letterario con tutti i suoi lombi di nobiltà ben presenti e ben esposti, remunerativo persino per chi lo praticava da par suo, degno in quanto tale di considerazione. Nulla rende meglio l'idea della lettera con cui, nel 1963, Enrico Emanuelli accolse il Manganelli esordiente sul Corriere della Sera: «Avrà forse visto ieri, nella pagina letteraria, la sua recensione al libro della Murdoch. Le scrivo per darle una spiegazione e per chiederle scusa di un piccolo contrattempo. Come avrà constatato, l'ordine della sua nota è stato capovolto: l'ultima parte è diventata la prima e viceversa. Ragioni crudamente giornalistiche hanno consigliato questa operazione: così prima si parlava e subito - del libro e poi seguiva il discorso o le considerazioni sulla narrativa della Murdoch. Non avendo tempo per interpellare se lei era del parere, se dava il benestare, ho scelto la soluzione della sigla al posto della firma. Di questo le chiedo scusa. Ma la sua firma, in un'altra occasione, tornerà sulla pagina. Adesso che il ghiaccio è rotto, mi dica se qualche autore o qualche argomento le interessa in modo particolare». Par di sognare.
La bulimia letteraria di Manganelli va da Omero a Chaucer, dal Seicento a Vincenzo Monti, dai classici inglesi del Novecento ai coevi romanzieri italiani, Bassani, Cassola, Ortese, dalla saggistica alla narrativa alla poesia e basta del resto dare uno sguardo alla trentina di titoli che racchiudono in vita e post mortem la sua attività di scrittore per comprendere come con Manganelli non si scherzi. Eppure, lo dico senza iattanza, l'uomo-libro Manganelli non fa per me, non è, formula che un anglista quale egli era avrebbe capito al volo, «my cup of tea», la mia tazza di tè Non è tanto o solo il suo stile, troppo lussureggiante; Mario Praz una volta lo inchiodò allo «spavento fosforescente» da lui usato per definire l'effetto provocatogli dalla prosa di de Quincey: «È certamente discutibile se uno spavento possa essere fosforescente, ma la retorica, scienza delle proposizioni efficaci, sa compiere prodigi» Manganelli è, naturalmente, un maestro di stile, ma spesso il suo virtuosismo più che incantarmi mi stanca e poi mi annoia: «Infrena nei migliori codesta condizione segretamente febbrile il senso del decoro, ritegno affatto sociale, cui è affidato un compito moralmente eroico: situazione squisitamente ironica. E di tragica ironia, giacché le passioni che vengono ridotte a ordine con tecnica tanto pateticamente inadeguata, sono penose quanto intimamente esagitate: passioni fatali». Al Gran Premio degli Avverbi Manganelli avrebbe stravinto
No, il punto del contendere è un altro e riguarda l'idea stessa della letteratura e del leggere. È sicuro che, parlandone al presente, Manganelli legga più di me, molto più di me, ed è probabile che legga meglio di me, molto meglio di me, ma ciò che lo guida è «giocare con la letteratura, giocare con le parole, giocare con i temi, ah, i temi!», laddove per quel che mi riguarda i libri debbono funzionare da compagni di solitudine, mi aiutano a capire, mi insegnano a bere, a mangiare, ad amare, mi confortano e mi indignano, hanno a che fare con una visione del mondo, fanno parte di una dietetica spirituale, per dirla con Schopenhauer. Questo spiega anche perché in quel mondo della letteratura Manganelli abbia naturaliter un posto. Fa parte del gioco, nel senso nobile come nel senso plebeo del termine, mentre io rimango un outsider e insieme un dilettante: non mi interessa, tantomeno mi diverte, preferisco fare altro. L'idea di una cena di letterati che giocano con la letteratura è l'anticamera dell'inferno.
Per spiegarmi meglio, prendiamo la recensione che Manganelli fece di due libri di Leo Longanesi, Parliamo dell'elefante e In piedi e seduti. È una recensione positiva, racchiusa nell'icastica espressione «è uno scrittore». In essa ci sono tutti gli elementi di Longanesi divenuti nel tempo un luogo comune: singolare, scomodo, divertente, antipatico, «un carciofino sotto odio» insomma. Ciò che è singolarmente assente, accennato di sfuggita e subito lasciato cadere, «iniziò la sua carriera di italiano da adolescente fascista», è però proprio il fascismo di Longanesi, l'aver creduto, poi l'aver fatto finta di credere, l'aver poi sperato in qualche miracolo, l'aver poi pregato perché tutto finisse al più presto, infine l'essersi chiamato fuori dell'Italia, che andasse come andasse nessuno l'avrebbe più fregato Se non si capisce questo, Longanesi resta un giocattolo rotto, buono appunto per il gioco dell'oca della letteratura. Allo stesso modo, sempre in quella rilettura longanesiana c'è una stilettata anti-Malaparte: «Vien fatto di giustapporre le due immagini. Uno solo usava la brillantina, e noi sappiamo di chi si tratta. Longanesi è scrittore. Malaparte è un'altra cosa: è uno che sa scrivere; generalmente colui che sa scrivere affascina chi non sa leggere. Ci sono fascini peggiori, ma anche d'assai migliori». Il periodo è ben costruito, anche se è una riverniciatura del couplet longanesiano «amava i Grand Hôtel e i wagon lit», ma è irrimediabilmente, stupidamente superficiale. Malaparte non sapeva solo scrivere, sapeva di che scrivere, si trattasse di Caporetto, dell'Italia barbara, delle dittature e della morte dell'Europa, tutte cose di cui Manganelli, intento a giocare, o non si era accorto o si era dimenticato.
Interessarsi solo del meccano letterario, al cui interno tutto può accadere, purché si tengano a mente le istruzioni per l'uso, può provocare anche tremende cecità. Nel 1979 Manganelli recensisce i vent'anni di Una vita violenta di Pasolini e scrive un bellissimo pezzo. «È un ingegnoso prodotto in similvita, un'abile macchina sintetica». «Ossessionato dall'autentico - nota ancora - Pasolini non poteva non naufragare nella tiepida sabbia del falso. Un po' di malattia, di cattiveria - come sedi retoriche -, avrebbero distrutto questo agglomerato, questa arlecchinata di ritagli di buona coscienza. Bastava poco: ma Pasolini, afflitto da una stizzosa bontà, quel poco non lo voleva» È tutto letterariamente perfetto, solo che, cinque anni prima, proprio di quella «vita pasoliniana» come «luogo prelabsario» dove, «si sa, di vita, letterariamente, si muore» Pasolini era invece morto, letteralmente, di persona, insomma, travolto, anche qui letteralmente, dalla ruote della sua stessa auto guidata dal «ragazzo di vita» suo assassino e insomma, almeno una nota a margine e al testo tutto ciò avrebbe l'avrebbe meritato, non fosse stato Manganelli troppo impegnato a smontare «l'abile macchinazione mimetica»...
Una certa idea di letteratura, rimanda, va da sé, anche a una certa idea di lettore. Sulla scorta dell'Hermann Hesse di Del leggere i libri, Manganelli ne distingue tre tipi: il lettore ingenuo, quello infantile, quello «supremo e infimo allo stesso tempo», quest'ultimo più un'immagine ideale che qualcosa di reale e/o di definito. Le sue simpatie, per quanto non dette in modo esplicito, vanno al secondo: infantile non vuol dire puerile o bambinesco, ma rimanda appunto al «gioco squisito e rigoroso», in virtù del quale «lo scrittore è un giocatore davanti a una scacchiera sulla quale i pezzi si muovono con regole capricciose, arbitrarie e rigorose». Dovessi scegliere, io opterei invece per il primo, quello «che si appassiona alla storia e si identifica con le traversie dell'uno o dell'altro personaggio».
È così, chiosa Manganelli, «che noi leggiamo la prima volta L'isola del tesoro e non è affatto un modo cattivo, anche se non consente di distinguere Stevenson da Salgari». Non ne sarei così sicuro, ma se anche fosse, che male c'è? L'importante è non barare, nel gioco, nella letteratura, nella vita.
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