Maugham, un "Mago" a smascherare gli inglesi

Il romanzo ispirato ad Aleister Crowley ritrae un'epoca e la sua diffusa passione esoterica

Maugham, un "Mago" a smascherare gli inglesi

A lungo William Somerset Maugham (1874-1965) si vide affibbiata l'etichetta di «primo della classe fra gli scrittori di seconda categoria»... Era un giudizio dovuto essenzialmente a un paio di fattori: uno era il suo successo commerciale, che contrastava con il dogma critico che, in vita, il genio artistico dovesse andare a braccetto con la fame e l'incomprensione; l'altro era la sua longevità, sia biografica sia creatrice, che lo aveva visto esordire a fine '800 e continuare a dire la sua ancora a metà del '900, impermeabile alle mode, alle sperimentazioni, all'engagement e alle ideologie.

Era fondamentalmente uno storyteller Maugham, nei racconti come nei romanzi, ma specie in quest'ultimi l'avventura di cui erano intessuti era soprattutto intellettuale, i dolori esistenziali di un pittore, i grovigli psicologico-sessuali di una coppia, le ansie religiose di un credente, immersi però in una cornice esotica. Per il suo pubblico inglese di riferimento, quest'ultima da un lato cominciava già appena superato lo stretto di Calais e aveva Parigi come epicentro, culturale e no, della «diversità», dall'altro riguardava il cuore segreto di un impero, il subcontinente indiano, l'estremo Oriente, epicentro invece di quella tipologia umana del gentleman che era più un prodotto d'esportazione che un frutto autarchico, una proiezione onirica, per molti versi. Nei loro cottage di campagna o nei bungalow oltre mare, i lettori suoi connazionali si appassionavano a quelle storie come se si trattasse di inglesi traviati dal clima, dalle frequentazioni sbagliate, di libri, di quadri, di esseri umani: raccontavano un disordine tanto più eccitante perché letto all'interno di un sistema di valori rassicurante, la monarchia, la sterlina, le classi sociali, un filisteismo tanto di abitudini quanto di comportamenti. Metteva in scena il male, Maugham, ma come si trattasse di un'entità aliena, un qualcosa di estraneo e non riconducibile al genius loci, un corto circuito o, se si vuole, un colpo di sole rispetto alla nebbia nazionale scambiata per la vita moralmente vera. L'effetto era tanto più straniante se a questo si aggiungeva la maestria dei dialoghi, risultato di un'attività di commediografo intensa e fortunata: Maugham era abilissimo, si veda per fare un solo esempio, un romanzo come Vacanze di Natale, a dare corpo a quegli scambi svagati fra esponenti della middle e dell'upperclass britannica, dove si pattinava sui luoghi comuni, stile Royal Academy, in materia di arte moderna, di stereotipi sulla selvaggeria dell'anima russa, il mandolinismo di quella italiana, la cochonnerie francese... Lì dove lo stesso Maugham, che dalla madre patria era fuggito per paura di fare la stessa fine di Oscar Wilde, si divertiva a mettere in ridicolo lo stile inglese nella sua sordità esistenziale, i suoi lettori vi si rispecchiavano vedendone le loro certezze confermate.

Questo miscuglio di inglesità all'ennesima potenza, razionalismo filosofico, pragmatismo scientifico e spiritualismo scientista, è alla base di quel The Magician, Il mago, uscito da noi negli anni Trenta e ora riproposto da Adelphi (pagg. 254, euro 18, trad. Paola Faini) che Maugham scrisse nel 1908 ispirandosi a quel curioso personaggio che fu Aleister Crowley, negromante inglese da lui all'epoca incontrato a Parigi, figura di punta di quell'insieme di ciarlatanerie, riti, bizzarrie e persuasori occulti che ebbe fra le sue file anche chi, come Arthur Conan Doyle, aveva creato Sherlock Holmes, ovvero il detective più razionale del suo tempo e di tutti i tempi. Credeva nello spiritismo Doyle, nella possibilità di parlare con le anime dei defunti, nei medium, negli stati di trance. Che non si trattasse di una fissazione individuale, lo dimostra anche I Came, I Saw, l'autobiografia di uno scrittore-viaggiatore iper-novecentesco come Norman Lewis, l'autore di Napoli '44 e di Niente da dichiarare, in cui racconta come nella sua infanzia entrambi i genitori avessero dato vita a una sorta di club dell'al di là fra le quattro mura del loro salotto di campagna gallese.

Nel Mago, Crowley prende le fattezze mostruose di Oliver Haddo, ex bellissimo studente di Cambridge e ora fisicamente gonfiato, «un'incredibile obesità, il ventre di dimensioni imponenti, il volto grasso e carnoso, la bocca larga, le labbra turgide e tumide», dal proprio delirio di onnipotenza. Il suo desiderio è di «essere come Dio», di vedere «una sostanza inerte prendere vita grazie ai miei incantesimi». Al chirurgo Arthur Burton, che gli oppone la superiorità della scienza, Haddo replica che «la magia non è altro che l'arte di impiegare consapevolmente mezzi invisibili per produrre effetti visibili. Volontà, amore, immaginazione sono poteri magici che chiunque possiede; chi sa come svilupparli appieno è un mago. La magia ha un solo dogma, ovvero che il visibile è la misura dell'invisibile». Haddo sedurrà la giovane e bellissima fanciulla che Arthur avrebbe dovuto sposare, la porterà con sé in Inghilterra, ne farà una vittima e una schiava...

Nel Mago, Maugham dà prova di tutto il suo talento, una scorrevolezza mai piatta, una banalità apparente nel far risaltare la prosaicità dello scettico e sfortunato dottore a petto della verbosità pittoresca del suo alchemico nemico.

Stria di una sorta di discesa gli inferi, il romanzo, come suggerisce la bandella editoriale, potrebbe raccontare anche la fascinazione del male, tanto più rischiosa perché «fame di una vita infinitamente viva, di rischiose avventure, di conoscenza soprannaturale e di ignota bellezza». È un'ipotesi suggestiva, ma per abbracciarla fino in fondo Maugham avrebbe dovuto essere quello che non era, un intellettuale e non uno scrittore.

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