"Per me scrivere è dare un passaggio alle vite marginali"

L'autrice di "Una volpe a mani nude" spiega la sua poetica delle "piccole fini del mondo"

"Per me scrivere è dare un passaggio alle vite marginali"

A dare il titolo a Una volpe a mani nude di Emmanuelle Pagano (L'Orma, pagg. 286, euro 22) è una ragazzina che ha strangolato una volpe, per porre fine alle sofferenze della bestiola ferita. E che, per questo, finisce in terapia. Eppure, quell'evento così sconvolgente per gli altri è, per lei, una delle poche cose reali e non problematiche della sua vita. Accade così, in questa raccolta di racconti i cui protagonisti e temi si ritrovano fra un capitolo e l'altro, come in un romanzo, e con la quale l'autrice francese, nata nel '69 ad Aveyron, è stata finalista all'International Booker Prize 2020 (per il romanzo precedente, Gli adolescenti trogloditi, L'Orma 2020, ha vinto il Premio dell'Unione europea per la letteratura). Ne parlerà a Roma, il 12 luglio, alla serata di apertura del Festival Letterature.

Emmanuelle Pagano, la prima domanda riguarda la struttura del libro: come lo ha concepito?

«Inizialmente avevo pensato a una semplice raccolta di racconti. Molti erano già finiti, e mi sembrava che fossero accomunati da alcune tematiche, in particolare quella dei margini. Poi, un giorno, mentre guidavo sulla solita strada, ho visto che avevano cominciato dei lavori su uno dei tornanti. Lì vicino c'era una piazzola dove incontravo sempre un uomo che era già diventato un personaggio di un mio romanzo, Gli adolescenti trogloditi, e che sembrava sospeso nella perenne attesa di qualcuno... Probabilmente soffriva di qualche malattia psichica. Allora mi sono chiesta che cosa ne sarebbe stato di quell'uomo se il tornante fosse scomparso, e ho deciso di scrivere a partire da questo spunto».

Come ha fatto?

«Per prima cosa, dovevo liberare il mio personaggio dal libro in cui lo avevo rinchiuso e trasferirlo in una nuova storia: L'idiota e il genio. Così mi è venuta voglia di liberare anche gli altri personaggi dai vari racconti, rivisitandoli a partire da un punto di vista inedito. E, quando mi sono resa conto che le trame cominciavano a incastrarsi tra loro, ho deciso di sistematizzare gli incroci, e ho scritto nuovi racconti per collegare anche quelli rimasti orfani».

Suona complicato, anche se il libro non lo è.

«Sì, insomma, nel giro di poco è diventato un lavoro folle: cercare di mettere in relazione ogni storia con altre due, tre, quattro, cinque, soltanto perché un bel giorno mi sono chiesta che cosa sarebbe successo a un matto che aspettava il ritorno dei suoi morti sul ciglio di una strada che forse sarebbe stata deviata...».

C'è un parallelo tra la frammentazione del testo e quella dell'identità?

«È una domanda interessante, ma sarei dovuta partire da un testo coeso e poi scomporlo, mentre ho lavorato al contrario: ho cercato di collegare tra loro racconti nati separatamente. Ciò detto, il protagonista di L'idiota e il genio è in effetti un uomo in balia di una psiche che ormai è esplosa, frammentandosi: lo vediamo un pezzo alla volta, e solo di sfuggita, mentre passiamo distratti nelle nostre auto».

Siamo tutti così, come quell'uomo?

«La sua identità ci sfugge anche per via della malattia che lo affligge e che lo rende diverso da noi. E questa diversità ci disturba. Non so se siamo davvero tutti come lui... Semplicemente, in Una volpe a mani nude ho voluto convocare tutte quelle persone che crescono e vivono ai margini, lontano dalla nostra vista, su strade che non incrociamo mai».

Infatti nel libro ci sono molte strade.

«Ho scritto questa raccolta in un periodo in cui trascorrevo molto tempo in auto, sulle strade, dove ho incrociato molte figure affascinanti, come quell'uomo che cercava sua madre da tutta la vita e credeva di poter trovare la risposta al mistero delle proprie origini in un quadro di Caillebotte... A queste figure ho voluto rendere omaggio, facendone i protagonisti del mio libro».

Perché sono «marginali»?

«Lo sono nella misura in cui vivono sul ciglio delle loro vite, case, città o strade ma, soprattutto, nascosti allo sguardo delle loro famiglie e della loro memoria, oltre i confini di ciò che è ragionevole e ordinario».

Com'è la loro esistenza?

«Vivono senza tante speranze, allo stesso modo in cui fanno l'autostop: prima o poi, magari, qualcuno li prenderà su, darà loro un passaggio. Io li ho presi con me, nel mio libro. I loro corpi testimoniano il dramma di queste esistenze: sono ammaccati, piegati».

Una delle donne del libro dice di conoscere solo «una lingua di solitudine e di fatica».

«Quella donna, protagonista di Le lingue materne, è ispirata alla mia nonna materna, e in lei ho voluto convogliare tutte le storie di quelle donne che hanno vissuto lutti perinatali in un mondo contadino ancora arretrato. Tale arretratezza ne plasma la lingua: la donna parla in patois, in dialetto, proprio per sottolineare la sua distanza dal nostro, di mondo».

Una lingua di tradizione.

«È una lingua ricchissima, certo, ma anche appesantita dalla durezza di quelle campagne francesi così remote, e di quella quotidianità così priva di ogni comfort, scandita soltanto dalla necessità. Ed è proprio la durezza di quella vita, unita all'impossibilità di comunicare il proprio dolore, soprattutto al marito, che porta la protagonista a parlare una lingua di solitudine e fatica. Anche se credo che, purtroppo, ci si possa sentire soli al mondo in ogni Paese e in ogni tempo».

Da dove nascono la commozione e il senso di malinconia?

«Tutti i miei personaggi sono ispirati a persone reali che in qualche modo mi hanno toccato, persone che di solito non vediamo affatto, o a cui guardiamo attraverso il filtro dei nostri pregiudizi. Io credo che il mio lavoro, il lavoro degli scrittori, consista nell'oltrepassare i pregiudizi, e nel guardare attraverso lo sguardo degli esseri umani, nel mettersi di fianco a loro: così facendo si scoprono veri e propri tesori. Tesori fatti di emozioni. Una volta fatto ciò, però, bisogna raccontare queste storie, trovare una lingua per esprimerle e restituirle al mondo».

Che cosa sono le «piccole fini del mondo» che vediamo ovunque, dal supermercato alla rotonda in mezzo alla strada?

«Credo che l'isolamento non esista soltanto nel bel mezzo della Natura o del deserto. Io abito in un luogo in un certo senso scomodo, lontano da negozi, ospedali, stazioni e uffici, ma non lo definirei mai un posto alla fine del mondo: mi sembra, anzi, che ne faccia parte a pieno titolo.

Ci sono altri posti, invece, che sono per definizione inabitabili, e in cui tuttavia alcune persone vivono e lavorano, nonostante siano luoghi orribili, dove a nessuno viene voglia di fermarsi. Ed è questa, secondo me, la definizione di fine del mondo: un luogo invivibile, infernale, inospitale, nato nel bel mezzo della civiltà».

(Traduzione di Nicolò Petruzzella e Pietro Clesi)

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