Il Messico, la Conquista e il sangue dei vincitori

L'ondata di revanscismo che attraversa il Paese travolge anche i valori delle nazioni occidentali

Il Messico, la Conquista e il sangue dei vincitori

Ricorreva in questi giorni il quinto centenario della conquista del Messico; e alla fine del mese il Paese celebrerà il secondo della sua indipendenza. Due buoni motivi per aprire o riaprire dibattiti, aggiornare libri e edizioni classiche come La conquista del Messico (1993) dello storico inglese Hugh Thomas. Materiali e documentazione che riaccendono il fuoco della protesta e fomentano il processo di critica nei confronti degli spagnoli, e dei navigatori ed esploratori europei. A partire da Cristoforo Colombo che, in questi ultimi mesi, ha visto le sue statue abbattute, rimosso il nome nelle vie delle metropoli americane e non di rado la sua effigie esposta al pubblico ludibrio. Un'ondata di protesta, diventata furia iconoclasta, ha investito i grandi e piccoli protagonisti della scoperta e della colonizzazione delle Indie, coinvolgendo anche figure ufficiali dell'attuale politica nazionale.

Come il presidente del Messico, Andrés Manuel López Obrador, che ha chiesto al re di Spagna Felipe IV le scuse ufficiali per le atrocità commesse dai conquistatori spagnoli, dimenticando che già il domenicano Bartolomé de las Casas nella sua Brevísima relación de la destrucción de las Indias (1542) aveva denunciato (con molte esagerazioni) i delitti commessi dagli invasori, chiedendo l'intervento della corona. È anche sua la bella idea di andare a prendere i neri nella lontana Africa, portarli in America e impiegarli come schiavi nei lavori della colonizzazione che gli indios non erano in grado di sopportare.

La celebrazione dei due centenari ha fatto esplodere la protesta sull'onda del revanscismo coltivato dai movimenti di rivendicazione dell'identità del nativo, alimentata dalle trasformazioni avvenute nella politica, nella società e nelle ideologie portatrici di una maggiore sensibilità nei confronti di ogni forma di sfruttamento ed emarginazione. Critica più che legittima, ma snaturata da una visione populista e manichea che non tiene conto dei tempi della storia, dei diversi valori e contenuti che regolano le civiltà e le culture del passato. Ciò non ci esime da esprimere un giudizio di condanna contro ogni forma di sopruso e violenza esercitati su popolazioni inermi, ma è doveroso considerare le ragioni e i valori diversi espressi in epoche lontane dalle nazioni occidentali, fortemente legate - è il caso soprattutto della Spagna - alla fede e al vangelo, i cui simboli esterni (la croce) precedono la spada, mentre il frate domenicano o francescano che accompagna il conquistatore è interessato soprattutto all'evangelizzazione e a tale scopo apprende la lingua, le leggende e la letteratura orale dell'indio, che conserva e trasmette.

Per meglio comprendere i diversi criteri di giudizio legati al contesto storico, ricordiamo l'esempio edificante narrato da Santa Teresa d'Avila che racconta come una sua consorella, addolorata dal rifiuto di un marinaio inglese a convertirsi, chiede al Signore di mandarle tutti i mali di questo mondo purché l'eretico abbracci la vera fede: mali subito scomparsi non appena l'uomo, sfinito dagli interrogatori e dalle ferite, bacia la croce. Il marinaio è subito portato, fra il tripudio della folla, sul palco dell'auto de fé per essere garrotato, mentre il carnefice in ginocchio lo prega di raccomandarlo a Dio che presto raggiungerà. Non una parola sull'obbrobrio della tortura e l'orrore dell'atroce esecuzione del povero marinaio, preso in una bettola di Barcellona e portato a Valladolid: a Santa Teresa interessa solo la salvezza spirituale dell'uomo e per questo ricorda il singolare esempio.

Torniamo ai giorni della conquista che conosciamo attraverso le testimonianze trasmesse dal conquistatore Hernán Cortés, le cinque Cartas de Relación inviate a Carlo V, e quelle del soldato Bernal Díaz del Castillo che scrive la Historia verdadera. Il primo - ispirandosi alla decisione coraggiosa di Giulio Cesare di valicare il Rubicone - ordina di affondare le poche navi con cui è arrivato ed entra nella nuova terra mentre l'imperatore Montezuma continua a inviare ambasciatori e doni per scoraggiare la sua avanzata. La conquista avviene con uno sparuto manipolo di soldati, accompagnati da una moltitudine di indios tlaxcaltecas, acerrimi nemici degli aztecas che li avevano sconfitti e resi schiavi.

Cortés, come Cesare, è storico della propria impresa, mentre Díaz del Castillo è la memoria e la voce narrante dei soldati caduti nell'anonimato. Affascinanti sono le pagine della sua cronaca che descrivono Tenochtitlán, la capitale dell'antico Messico, fondata sulle acque, di cui elenca le svariate mercanzie, le case maestose e i grandi templi dove, nell'alto delle piramidi, si celebrano orribili sacrifici umani a cui un giorno, accompagnato da Montezuma, Cortés assiste con i suoi capitani, che reagiscono violentemente contro i sacerdoti lordi di sangue, intenti a estrarre i cuori palpitanti degli uomini sacrificati. Cortés e Díaz del Castillo raccontano anche la rivolta e la fuga precipitosa da Tenochtitlán, in cui molti spagnoli muoiono e i loro corpi sono dati in pasto alle belve, mentre altri compagni fuggendo, carichi d'oro e argento, cadono nei canali della città. L'inarrestabile avanzata di Cortés termina il 13 agosto del 1521 con l'occupazione della capitale azteca. Nella vera storia leggiamo - insieme allo stupore «per le cose mai viste o immaginate» - il racconto di due soldati perdutisi nella selva e diventati indios, in cui uno rifiuta di tornare a essere spagnolo. È l'inizio del processo di meticciato avvenuto tra le diverse culture, subito attuato dallo stesso Cortés che sceglie come interprete, compagna e madre del figlio Martín, poi battezzato, l'india Malinche.

Da questi incontri e scontri - ha detto il grande scrittore messicano Octavio Paz - siamo

nati noi, non più aztechi e neppure spagnoli, ma ispanoamericani aperti a una nuova visione del mondo. Rileggere oggi la storia della conquista del Messico significa fare uno sforzo di comprensione e non creare nuove ferite.

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