"La mia Via della cura in bilico fra scienza e anima"

Medico e scrittrice, propone un cammino, in 23 passi, per «ritrovare il nostro equilibrio quando si è rotto»

"La mia Via della cura in bilico fra scienza e anima"

MariaGiovanna Luini è lo pseudonimo con cui ha iniziato a scrivere, ormai qualche anno fa, Giovanna Gatti, che di professione è medico, ed è stata, per sedici anni, l'assistente di Umberto Veronesi alla direzione scientifica dello Ieo, dove lavora come senologo da venticinque anni. In parallelo, oltre all'attività di scrittrice, MariaGiovanna Luini ha intrapreso anche un cammino di «medicina integrata» (guai a chiamarla «alternativa», avverte: «Mi arrabbio moltissimo»), ed è appunto questo percorso, «un tutt'uno», che racconta in La via della cura (Mondadori, pagg. 276, euro 20; in libreria da oggi), sottotitolo: «Ventitré passi per superare le prove della vita e ritrovare l'equilibrio».

Come è cominciato questo percorso?

«Ho studiato Medicina, mi sono specializzata in Radioterapia in Belgio, poi in Chirurgia generale e, da lì, sono passata alla senologia, allo Ieo. Sono arrivata nel '94, l'Istituto era appena aperto».

È stata l'assistente medico di Veronesi. Che cosa faceva?

«Seguivo le pazienti dopo che lui le aveva operate, ero il loro interlocutore, facevo i controlli. Poi scrivevamo articoli e supervisionavamo il lavoro scientifico dello Ieo, anche se ovviamente il direttore era lui. Seguivo la comunicazione e poi c'era da gestire un mondo di telefonate... Lui voleva che, di quelle a contenuto medico scientifico, tutte avessero risposta. Tutte».

Come è stato lavorare con Veronesi?

«Molto affascinante, ho imparato moltissimo. Era bellissimo che fossimo così diversi, quasi opposti: io gli parlavo di anima e Reiki, era fantastico. Non ho mai incontrato un uomo così curioso e aperto al confronto».

Vabbeh ma quando gli nominava il Reiki...

«Non poteva accettare l'idea, però in effetti, mi diceva, c'è una empatia che migliora la cura... Per lui l'aspetto psicologico era importantissimo: prima che addormentassero le pazienti per un intervento faceva loro una carezza, sempre, perché sapeva che una carezza migliora le cose. E diceva che l'approccio al malato deve essere olistico».

Olistico in che senso?

«Nel senso che la cura, che per i suoi canoni di uomo razionale era basata sulla scienza, doveva comprendere tutto, anche il benessere. Intendeva olistico come lo intendeva la Montalcini, cioè tutto».

E del suo percorso, che comprende appunto anche il Reiki, lo sciamanesimo, le discipline orientali, che cosa pensava?

«Era impossibile trovare due persone più diverse... A volte gli dicevo: Lei è pazzo; e lui: Senti chi parla. Era bellissimo. In uno degli ultimi incontri mi ha detto: Sai che cosa mi manca moltissimo? Parlare con te. E poi c'era l'apertura, reale, da parte sua».

La sosteneva?

«Mi diceva: se sei convinta del tuo percorso e vuoi controllare i tuoi dubbi, fallo, sii coerente. Ma sappi che hai scelto una via difficile, sarai da sola e incontrerai molti ostacoli, soprattutto quando non ci sarò più».

È vero?

«Vero. Però ha anche aggiunto: Non mollare. E ricordati che, chi vola, vola sempre da solo. Il confronto con lui mi ha costruito tanto».

Una delle sue massime era: «Quando ti chiedono come stai, devi sempre rispondere che stai bene».

«Per lui era un modo di impostare sé stessi e il mondo. Se parti disfattista, parti male».

Di che cosa si occupa ora?

«Mi sto specializzando in psicoterapia e psicosomatica. La domanda è: che cosa fa sì che non siamo tutti perfetti, e che cosa fa sì che sappiamo quali siano le cose che vanno bene per noi, ma le nostre reazioni alla vita siano tutte diverse? Dentro di noi abbiamo una meraviglia, e un mistero, che fanno la salute e la malattia di una persona».

Qual è il suo approccio con i pazienti?

«Ascolto. Ascoltare la gente è la cosa che più mi affascina, ed è già una cura: noi sappiamo già che cosa va bene per noi, ma ci arriviamo se abbiamo uno specchio in cui guardarci, qualcuno che noti le nostre esigenze».

Però la malattia ci può uccidere.

«Infatti mi arrabbio con chi parla di medicina alternativa: ho grandissimo rispetto per la medicina, che applico e continuo a studiare; il mio è un andare oltre, per indagare se, e che cosa, ci sia, oltre il corpo fisico».

Qual è il punto oscuro?

«Il diavolo è ciò che rompe l'equilibrio, nonostante le cure migliori e una psiche che sembra orientata verso l'equilibrio».

La sfiga?

«La sfiga, o il miracolo. Noi medici ne vediamo tanti. Ed è proprio lì, che molti insistono per capire. La via della cura è un percorso che tutti possiamo intraprendere, se vogliamo: è un cammino per ritrovarci, quando l'equilibrio si è rotto, per una malattia, un lutto o un trauma».

Qual è il passo fondamentale nella Via della cura?

«Ascoltarsi. Sentire dentro di noi quel Gps, quel qualcosa che ci parla, e che io chiamo voce, o Guaritore interiore».

E la medicina?

«Io personalmente uso la medicina e i farmaci, studio l'oncologia e credo sia una fonte preziosa quando c'è la patologia. Credo nella prevenzione. La medicina mi ha salvato la vita. Però guardo anche oltre, al Reiki, agli approcci sciamanici, alla psicosomatica. Non sono sostitutivi. E poi bisogna considerare che c'è un mondo di gente che, per esperienza o per sfiducia, non ricorre alla medicina».

Che cosa fa in questi casi?

«Cerco di ricondurli tutti alla terapia. Propongo: vi spiace se sentiamo anche il chirurgo? E su certe prescrizioni sono inflessibile. È venuta da me questa giovane donna, di buona famiglia, con un tumore enorme al seno; all'inizio il tumore era piccolo, ma lei aveva incontrato un naturopata, che le aveva prescritto la clorofilla».

La clorofilla.

«Lui è stato arrestato. Ma come fai? Queste cose mi fanno arrabbiare da morire. Perciò mi irrito, se uno dice che amo la medicina alternativa. Semmai sarà il contrario...»

Ha lavorato anche con Ferzan Ozpetek. Che cosa ha fatto?

«Ho collaborato, come consulente medico, alla sceneggiatura di Allacciate le cinture, un film atipico, in cui si parla del tumore al seno. Lui aveva chiesto all'Airc un consulente, e gli hanno fatto il mio nome perché, fra l'altro, avevo anche già collaborato alla serie Crimini bianchi. È stata una esperienza indimenticabile: con il suo intuito e la sua sensibilità, Özpetek ha capito davvero come ci si sente».

Scrive: «Non siamo i nostri esami strumentali, non siamo le statistiche e nemmeno i protocolli».

«È fondamentale, questo. Se gli esami dicono che qualcosa non va, noi non diventiamo quella cosa lì. In oncologia, spesso il paziente diventa la sua malattia, il suo mondo diventa quella malattia e, così, la fiamma vitale si spegne. Invece, paradossalmente, la qualità della vita può resistere, perfino in condizioni estreme. In questo, le parole sono cruciali: il medico ha un carico di responsabilità che a volte sfugge. A volte le parole sono sentenze, e il trauma di quelle sentenze non te lo levi più, neanche con le cure».

Dice anche: «Figuriamoci cosa può fare la medicina di eccellenza unita all'empatia». Succederà davvero?

«Ne sono convinta. Si andrà per forza in questa direzione».

Che cos'è un «Uomo medicina»?

«È un'espressione dei Nativi. Non fare medicina, bensì essere medicina. È quella persona che ha deciso di incarnare la cura, e il fatto che vada dai pazienti è l'inizio della cura».

Lei è una «Donna medicina»?

«Se lo dicessi non lo sarei».

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