Perché intitolare una storia di quattro aspiranti suicidi Il primo giorno della mia vita? Dice Paolo Genovese: «È la storia di un uomo misterioso, che potrebbe ricordare un angelo, senza ali ma con un cuore grande. Quest'uomo ferma quattro persone che hanno toccato il fondo e vogliono farla finita, e chiede loro una possibilità: una settimana di tempo per cercare di fare cambiare loro idea. Farà scoprire loro come andrà avanti la vita senza di loro, quello che lasciano, i loro affetti, i loro cari, il lavoro... Poi li riporterà indietro e li lascerà liberi di scegliere: e così l'ultimo giorno potrebbe diventare il primo della nuova vita». Il regista di Immaturi e Perfetti sconosciuti è appena tornato da New York, che è la città che fa da sfondo a Il primo giorno della mia vita: non una sceneggiatura, bensì un romanzo (Einaudi).
Come è nata l'idea del libro?
«Avevo voglia di raccontare una storia che celebrasse la vita. Forse perché gli ultimi due film, Perfetti sconosciuti e The Place, erano un po' senza speranza. Mi piaceva partire da persone che cascano, ma trovano la forza di rialzarsi e di ricominciare».
Perché un romanzo?
«Volevo essere completamente libero, raccontare qualunque cosa, ambientandola ovunque».
Un film limita la fantasia?
«Un film deve essere realizzato, e ogni comparsa è un costo. In un romanzo puoi riempire la Quinta Strada di migliaia di persone, puoi andare sulla Luna e tornare. Poi magari il libro diventerà un film, anzi, mi piacerebbe molto».
Un romanzo molto cinematografico, comunque.
«Sì sì. Io nasco sceneggiatore. Il mio modo di scrivere è per immagini: che includono anche la musica, l'atmosfera».
Ogni momento del libro ha una colonna sonora. Fa già «vedere» la scena?
«Sì. Però qui la musica ha anche un senso diverso. Questo romanzo mi faceva un po' paura. Scrivere una storia in cui si vuole dire perché ha senso la vita, restare e non andarsene è ambizioso, ma rischioso: puoi diventare stucchevole, retorico, ci sono tante trappole».
E la musica?
«La musica è fondamentale: l'uomo misterioso deve salvare la vita a quattro persone, e la musica è proprio una di quelle cose che possono salvare la vita».
Perché i quattro personaggi?
«Volevo raccontare il male di vivere del nostro tempo e, dei tanti malesseri, ne ho scelti quattro. Il primo, quello di Aretha, è la perdita di un figlio. Non c'è neanche un sostantivo per definirla, perché è inaccettabile».
Poi c'è il motivatore di successo, Napoleon.
«Un classico. La depressione: il male del secolo, perché non ha ragione. Poi Emily, la ex ginnasta olimpica sulla sedia a rotelle: rappresenta quelle persone che cascano e non riescono a rialzarsi, schiacciate dal peso della società che chiede sempre di più».
C'è anche un bambino, Daniel, vittima di bullismo.
«Ahimè, c'è un numero sempre più elevato di bambini che si toglie la vita. Sono i più fragili, i più indifesi. Quelli che dovremmo ascoltare di più».
Aveva già in mente anche gli attori?
«No, assolutamente. Non lo faccio neanche nelle sceneggiature, altrimenti la scrittura ne resta impoverita».
In che senso?
«L'ambizione è inventare personaggi nuovi, memorabili, che dalla penna prendano vita autonoma: fisicità, colore, cuore, emozioni. Se pensi a un attore, questa libertà di creare è finita. Un personaggio deve nascere da zero, poi penserai all'attore che può incarnarlo».
Perché tanto scavo psicologico, nel libro come nei film?
«Il mio interesse è per le persone e, soprattutto, per i loro demoni, le loro parti nere. Faccio film di persone».
Che cosa le interessa?
«Mi piace raccontare storie con due caratteristiche. La prima è una forte introspezione: tirare fuori qualcosa di significativo per il pubblico, per aiutarlo a conoscere meglio se stesso».
La seconda?
«Emozionare. I miei personaggi non sono mai eroi: sono fragili, perdenti, pieni di difetti e delusioni. Magari si riscattano, ma sono personaggi difettosi».
Come in The Place, c'è il tema dell'ultimo desiderio.
«In tutti i miei film c'è il desiderio, da angolazioni diverse. Però The Place è una metafora assoluta: non pensi che quel bar possa esistere, la surrealtà è forte. Questo libro invece è verosimile».
L'angelo potrebbe esistere davvero?
«A Manhattan... sì. Chi legge immagina che questa storia possa succedere. Probabilmente, in quella città magica dove c'è di tutto, e tutto può accadere, c'è anche un alberghetto dove un uomo ti regala sette giorni per decidere se ricominciare la tua vita».
Per questo la storia è ambientata a New York?
«Sì. Solo lì può essere credibile.
Per me una storia è internazionale se parla a tutti: quindi può essere ambientata anche in un ascensore. Ma New York è New York. E solo a New York quell'uomo può spegnere tutte le luci, di notte, per farti riflettere sulla felicità».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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