In una pagina della Critica della ragion pura, costretto a descrivere le evanescenti concezioni della metafisica, Immanuel Kant (1724-1804) allude a oggetti spaventosi e in costante disfacimento, iceberg mentali che vagano in un paesaggio raggelante del quale nessun geografo riuscirà mai a segnare i confini. Un medesimo paesaggio incontra il lettore del Catalogo dei silenzi e delle attese di Claudio Morandini (Bompiani, pagg. 222, euro 18); a cominciare dalle prime pagine che sembrano autobiografiche, ma ben presto subiscono una torsione che le spinge in direzione dell'incubo.
Ogni estate Cosimo, il giovane protagonista del romanzo, è spedito dalla nonna che vive da sola in campagna e ha l'abitudine di raccogliere cicoria nei campi. Niente di sovralunare, si dirà, non fosse che stavolta la donna, oltre a erborizzare, riporta a casa lumache che di notte evadono dal secchio, ruba uova d'uccello, strappa dalla terra funghi microscopici; tesse reti nelle quali restano impigliati piccioni che abbatte con il matterello e dei quali accompagna l'agonia mormorando loro parole forse dolci, forse spietate. In un capitolo successivo, comuni giochi d'infanzia come scavare una buca spalancano scenari allucinati; in piscina, Cosimo lascia annaspare un bambino che sarebbe annegato, se non fossero intervenuti i genitori attratti dalle urla e quanto alla spiaggia, diventa la scena di un riuscito scambio di persona con un coetaneo ospite della vicina colonia. Quando il romanzo passa a descrivere l'età adulta, ci si sposta nel delta di un imprecisato fiume. Il panorama è quello manganelliano di una palude definitiva che adombra, più che il Po, le zone depresse dell'Europa orientale o baltica, «spazio liscio» presidiato da una popolazione primitiva. Lì Cosimo, che è fuggito dalla civiltà, viene salvato da un eremita che lo nutre con un pesce siluro «grande come un sanbernardo» chiedendogli in cambio il favore di un'evirazione - ci si guarderà bene dall'accontentarlo - che lo libererebbe dalla schiavitù del desiderio.
Le pagine dedicate alla scuola, vissuta da alunno e poi da insegnante, formano un atlante completo di mostri in cui è impossibile distinguere il dato biografico (che potrebbe mancare quasi del tutto; problema, del resto, letterariamente irrilevante) dalla fantasia. Gli episodi, che a prima vista, sommati, parrebbero costituire un romanzo di formazione sono intrecciati con il filo di cui sono fatti i sogni, come accadeva in quello che è forse il capolavoro di Morandini, A gran giornate, uscito nel 2012.
Sperare che all'origine degli scarti che separano le voci di questo «catalogo» ci sia la necessità di cucire assieme materiali eterogenei, come suggerisce l'autore in una nota, è un pio desiderio: Morandini non ha mai smesso di lasciar intendere,
con la determinazione dei grandi scrittori, quanto risibile sia il mito di un'esistenza organica in cui qualcuno possa dire «io» dal primo all'ultimo giorno della sua esistenza. La favola, ancora una volta, parla di noi.
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