«Tale è la misera e terribile nostra condizione», ammette il cardinale Federigo Borromeo parlando con don Abbondio. «Dobbiamo esigere rigorosamente dagli altri quello che Dio sa e noi saremmo pronti a dare». Uso le parole spicce del Manzoni per introdurre un discorso in cui sarà difficile districare la lode dalla perplessità. Il riferimento è alla riedizione, a cura di Massimo Bettetini, di Tutte le opere di Teresa di Gesù, al secolo Teresa Sánchez de Cepeda Dávila y Ahumada, nota al mondo come Santa Teresa d'Ávila (Bompiani, pagg. XLIV-2676, euro 65, con testo a fronte).
Figura complessa e sfuggente, quella di Teresa. Non perché lo sia veramente, Teresa non sfugge a nulla, ma perché la santità è qualcosa di fisico, di reale, definisce le biografie fin dentro i particolari, ma noi uomini del XXI secolo siamo incapaci di comprenderla, non per la nostra incredulità ma perché ne abbiamo smarrito le categorie culturali. Ci resta l'arte, questo ponte oggi più che mai misterioso tra noi e la nostalgia di ciò che non siamo più. L'Estasi di Santa Teresa di Gian Lorenzo Bernini ci dà un ambiguo suggerimento, mettendo in relazione l'estasi mistica con l'orgasmo femminile, senza però precisare - ma la carenza è nostra, non del Bernini - da quale parte si debba cominciare, cosa sia metafora di cosa. L'impressione, il sospetto, è che ci troviamo al capo sbagliato del filo. Che l'estasi non sia affatto una specie di orgasmo ma che, viceversa, quest'ultimo, se lo leggiamo nella sua profondità, sia una pallida immagine di quell'estasi, di quel contatto mistico di cui il contatto sessuale, se non ridotto a mercanzia, è l'ultima, pallida immagine.
Leggendo opere come La vita, che apre il volume, o Il castello interiore, capolavoro finale di Teresa, entriamo in contatto con un carattere perfettamente razionale, lucido, per nulla indebolito da un eccesso di immaginazione, ricco di humour come quando, proprio all'inizio del Castello, temendo di non poter fare altro che ripetere cose già dette altre volte, commenta, con ironia manzoniana ante litteram: «da una donna pare siano meglio comprese le parole di un'altra donna». Di nuovo, sono le nostre mancanze, le categorie perse per strada a pesare sulla comprensione. A cominciare dal concetto di luogo, fondamentale fin da Aristotele non solo in senso spaziale, come estensione vuota, limite immobile di corpi in movimento, ma come posizione degli oggetti della memoria, spazio mentale. Fin dalla retorica antica, e poi lungo i secoli l'immagine del «palazzo interiore» è servita come tecnica per l'esercizio e l'incremento della memoria, con l'associazione dei diversi luoghi di un palazzo immaginario (il portale, l'ingresso, le diverse stanze con le loro funzioni, le fiaccole, i tappeti, gli arazzi, i mobili, i cassetti, gli scomparti ecc.) ad altrettante nozioni astratte, concetti, teoremi. Si trattava, in altre parole, di conservare nel circolo della memoria tutta la complessità di ogni singola conquista intellettuale.
Ora, se Teresa riprende l'immagine del palazzo, o castello, è per salvaguardare un'altra complessità, altrettanto algebrica: quella della preghiera e dell'esperienza spirituale. Ed è qui che s'incontrano le difficoltà da parte di una mentalità, quella odierna, che destina queste cose nell'ambito del sentimento, della sensazione, dell'emozione, dello slancio spontaneo, in una parola della soggettività, escludendo dalla forza della spiritualità quel tanto di scienza e di disciplina che, viceversa, le è necessario. Ma questi sono i lasciti di Cartesio e, poi, di Hegel. In Teresa il mondo della preghiera si rivela complesso, oggettivo e rigoroso non meno della struttura del corpo umano, che a differenza dell'anima la modernità ha studiato a fondo, con merito ma scavando un solco sempre più profondo fra due entità, il «corpo» e l'«anima» che, da parte sua, Teresa legge invece in serrata contiguità.
Il corpo è anche anima, l'anima si esprime nel corpo. Se questa è dentro quello, lo abita in ogni molecola, essendone la ratio. Se non decide di entrare nel castello dell'anima, l'uomo vaga nelle sue vicinanze, ignaro di sé. La conoscenza di chi siamo è il primo passo verso la conoscenza piena, sponsale, di Dio, il quale abita stabilmente la settima stanza, l'ultima, ma senza la cui presenza l'uomo non potrebbe nemmeno fare ingresso nell'atrio del castello. «Inquietum est cor nostrum, donec requiescat in Te», esordisce Agostino nelle Confessioni. «Il nostro cuore è inquieto finché non riposi in Te». Forse Teresa specificherebbe quell'«est», traducendolo come un «fecisti». Dio stesso ci ha fatto inquieti, siamo in quanto così-fatti.
La lucidità di Teresa accresce il nostro moderno sgomento quando le sue pagine si affacciano sull'esperienza mistica, che dovette mettere alla prova (come in tutti i mistici) anche la sua salute fisica. Colpisce la carnalità di quell'esperienza, che Teresa descrive da fuori, come testimone oculare di quanto accadeva in lei. Le sue parole sono precise, nette, senza nessuna preoccupazione di introdurre il lettore emozionalmente a quanto le accade durante le visioni. Teresa non cerca l'empatia, si contenta di documentare: per comprendere quello che lei dice, il lettore dovrebbe compiere il suo stesso percorso. Un'insistenza, questa, sul nesso tra esperienza e conoscenza, che attraversa tutta la cristianità. Lo ricorda Jacopone («ché tanto sta per te lo cor gioioso,/ chi nol sentisse nol porrìa parlare/ quanto è dolce a gustare lo tuo sapore»), lo ripete Dante («Mostrasi sì piacente a chi la mira,/ che dà per li occhi una dolcezza al core,/ che 'ntender no la può chi no la prova»).
Le Poesie, specialmente quelle di argomento più intimo, sono altrettanto sconcertanti. Nessun aspetto dell'esperienza umana è escluso dall'amore con Dio, l'Amato: «Quando il dolce cacciatore/ mi colpì e mi fece arresa/ la mia anima cadde/ tra le braccia del suo amore...». La lingua erotica, spudorata, degli antichi lirici rivive nella più alta e inspiegabile delle unioni: anche qui, senza veli. L'amore di Dio con l'anima è brutalmente libero, rivela i segreti del talamo nuziale. «Cosa volete mio buon Signore/ da una creatura così vile?/ Quale compito avete scelto/ per questo servo peccatore?/ Sono qui, mio dolce Amore,/ Amore dolce qui mi vedete:/ che volete far di me?». Letto dopo queste pagine, perfino il marchese De Sade si spalanca a un'interpretazione mistica, che forse è quella più plausibile, anche per lui.
Se fisicità e spiritualità, lucida razionalità e contatto mistico convivono drammaticamente ma in modo armonico, senza strappi, nell'opera di Teresa, si ha l'impressione che, nella storia susseguente siano state introdotte nel pensiero quasi ad arte, o per un moto tellurico, più storico che filosofico, separazioni (spirito/materia, pensiero/estensione, scienza/fede ecc.) che prima erano solo distinzioni dentro l'unità. Non so se sia stata la scoperta dell'America, o la Riforma Protestante, o la nascita della Scienza moderna. Forse nessuna delle tre. Forse tutti e tre questi eventi, e soprattutto il modo in cui si sono affacciati sulla scena del mondo, sono la conseguenza di qualcos'altro che ha spezzato, divelto la possibilità di una visione unitaria, l'idea intendo di un sapere umano simile a un diamante (l'immagine è di Teresa) dalle mille facce diverse - scienza, filosofia, arte, pensiero, etica, diritto e così via - ma uno e inscindibile nella sostanza. A queste e a tante altre cose sospinge il vento possente delle pagine sconcertanti di Teresa.
Diverso il discorso per quanto concerne il libro, ossia l'oggetto che ci si trova tra le mani e che, spiace dirlo, non poteva essere dato alle stampe in questa forma, quantomeno in un Paese civile. Già il fatto che il direttore di collana e il curatore del libro portino lo stesso cognome desta sospetti (spero infondati). La traduzione patisce spesso incertezze che si trasformano in fastidiose imprecisioni, come quando (pag. 1115) il «mal odor» dell'acqua nera del demonio viene tradotto, con ironia non richiesta, con «olezzare», ossia profumare. O come alle pagg. 2012-13, quando un infuocato «amar» viene tradotto con «volere bene». Scappano, inoltre, diversi errori di stampa, che in un'edizione come questa non dovrebbero esistere. Ma, soprattutto, un'edizione così ambiziosa necessiterebbe di un vero apparato scientifico, qui completamente ignorato. L'introduzione è piacevole e ingenua, ma ce ne vorrebbe una vera che inquadri uno dei più grandi geni di ogni tempo, quale Teresa è. E la bibliografia non si può ridurre, qui, a poche paginette che recano, oltretutto, sempre gli stessi nomi. Ma qui la responsabilità, più che del curatore è dell'editore.
Comprendo le difficoltà finanziarie in cui versano oggi imprese come queste, in un Paese dove la cultura vive delle briciole che cadono dalla tavola dei potenti. Ma, piuttosto che realizzarle così sarebbe meglio non realizzarle affatto.
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