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Nel poema di Zhiti il requiem del "pensiero unico"

Torturato, umiliato, oltraggiato, il poeta è l'agnello sacrificale del «terrore rosso», il comunismo

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Inafferrabile, il poeta continua a essere condannato dai regimi. Torturato, umiliato, oltraggiato, il poeta è l'agnello sacrificale del «terrore rosso», il comunismo. Esempio recente. L'Albania di Enver Hoxha. Quella specie di anacronistica Corea del Nord conficcata come un pugnale nel fianco sinistro d'Europa. Siamo nel 1979, il poeta ha 27 anni, ed è l'astro della lirica albanese. Si chiama Visar Zhiti. Arrestato per «propaganda e agitazione contro lo Stato», al processo i giudici sbandierano le sue poesie. «Borghesi e decadenti», decretano. «Scritte con un linguaggio ermetico, ostile al realismo socialista». Pare di essere nel '37, sotto il tallone di Stalin, ma è l'altro ieri. Il poeta è condannato ai campi di lavoro. Lavora sotto terra, a estrarre il rame. Come un Orfeo che abbia perso gli inferi, oltre a Euridice. Con lui, intellettuali, scrittori, poeti. Quando l'ho incontrato, mi ha detto che contrabbandavano poesie di Walt Whitman e di Baudelaire, pagine dai romanzi di Dostoevskij. «Mi aggrappai alla poesia, per non impazzire. Scrivevo al buio, di notte, senza carta né penna, nella testa». Otto anni di prigione. Poi, nel 1991, la fuga. Milano, Germania, Stati Uniti. La vita, lentamente, lo risarcisce. Visar è prima ambasciatore d'Albania in Vaticano, da poco è all'ambasciata albanese negli Stati Uniti, a Washington DC. La sua poesia, anche per la potenza etica, «esemplare e prodigiosa» (così nel numero di In forma di parole dedicato ai Poeti della terra d'Albania, 2002), passa presto in Italia.

Dopo aver pubblicato, nel 2014, Il visionario alato e la donna proibita, l'editore Rubbettino manda ora in libreria, per la consueta cura di Elio Miracco, Il funerale senza fine (pp.156, euro 15), romanzo in versi formidabile, che mescola l'ansia whitmaniana del canto alle vertigini di Mario Luzi (di cui Zhiti è traduttore). Di fatto, il poema in 66 stanze di questo anti-Neruda, pubblicato in origine nel 2003, è il requiem, 100 anni dopo la Rivoluzione russa, del «pensiero unico» (d'altronde, «pensarla diversamente ti complica la vita»), dello Stato come «becchino», del dittatore come espressione del proletariato unito («Alla morte dei dittatori regna un'ombra pesante in tutto lo Stato e un'angoscia, sembra morto anche il paese. Si troverà mai un altro oppressore di tanto successo?»). La lettura è una catabasi nelle pudenda orrende del secolo, dove tutto è morto, morente, morituro, tra il funerale di Stalin (ma «di un altro Stalin si seppellisce il sosia perché l'originale resti vivo») e quello degli «oppositori... ridotti in pezzi», con squarci di cinica ironia («Il Partito incominciò a prendere strane decisioni/ proclamava traditore chi era già morto/ Ma dove ha tradito, nell'Oltretomba?»). In questa sardana infernale, tuttavia, sgorga l'amore, carnale («Che un giorno sarei morto, beh, lo sapevo, ma che avrei/ fatto l'amore in un funerale non l'avrei mai immaginato»), anzi, a «forma piramidale».

Pur sarchiato dal potere, il poeta, sempre, ulula il suo barbarico «sì»' alla vita.

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