Un borghese con la corona in testa. «Quando scriveva le sue tragedie, badava soprattutto a far soldi. Per un poeta era disdicevole, allora, lavorare in teatro. Ecco perché firmava solo i suoi sonetti. Era come certi geni che scrivono sceneggiature ad Hollywood. Creava sotto pseudonimo». E per Franco Branciaroli, assiduo e apprezzato frequentatore soprattutto dello Shakespeare «politico», il Bardo è imbattibile nel raccontare il Potere. Proprio perché lo fa da «borghese».
Al di fuori del mito, dunque?
«Con Shakespeare non c'è posto per i monumenti. In Giulio Cesare il detentore del titolo sta in scena solo per 15 minuti. Molto più spazio di lui ha Bruto; che non è il solito figlio traditore, ma qualcosa di più complesso e interessante: un idealista che sbaglia bersaglio, che in buona fede compie un madornale errore politico. Il mito, insomma, intrecciato agli inestricabili nodi delle debolezze, delle contraddizioni umane. Non c'è dubbio: è più intrigante un Winston Churchill che un Saddam Hussein».
Eppure il re più celebre di Shakespeare, il deforme Riccardo III, non ha molto di contraddittorio.
«E difatti è il più monocorde dei suoi sovrani. In fondo è, dall'inizio alla fine, solo un efferato assassino; la prova generale del personaggio di Jago, che ne erediterà, ma articolandola, la totale malvagità. È la grandezza del testo, più che quella del personaggio, a farne la tragedia in testa agli incassi shakespiriani».
E Lear, il monarca che cade in rovina?
«Il più umano di tutti. Perché compie un errore madornale per un re, specialmente dei suoi tempi. Abdica. Nessun autentico sovrano rinuncerebbe deliberatamente al potere; pena il dissolversi della sua stessa regalità. È questo errore a renderlo struggente e titanico. Non il suo potere».
Potere significa anche ambizione, crudeltà... assassinio.
«In una parola: significa Macbeth. Lo sto provando proprio in questi giorni, per il debutto a Brescia e, nella prossima stagione, al Piccolo di Milano. E ho capito che la grandezza dello Shakespeare politico non sta nell'intreccio, ma nella metafora. Non è la trama ad avvilupparci (in questo molti autori elisabettiani sono superiori al Bardo) ma nelle sue gigantesche figure poetiche. Esempio: in Macbeth l'assassinio è segnalato dal suono di una campana. E Shakespeare ripete trenta volte la parola done (fare) creando un'indiretta onomatopea del dan di una campana. Solo un genio poteva inventare una cosa simile».
Quant'è arduo per un attore interpretare lo Shakespeare con la corona in testa?
«Gli attori si dividono in due categorie. Quelli che possono fare i re shakespiriani. E quelli che assolutamente non devono. È questione di carattere, personalità, autorevolezza. E anche di fisico».
E i re shakespiriani trasportati al cinema?
«Non funzionano. Il cinema racconta per immagini, privilegia la trama. Shakespeare seduce con la poesia, coinvolge con la metafora. Neppure Laurence Olivier, nemmeno Orson Welles sono riusciti a spuntarla. Prendete l'ultimo Macbeth cinematografico, quello con Michael Fassbender. Un magnifico film d'azione. Ma Shakespeare, che fine aveva fatto? Contava la trama; non la poesia».
Che dire, allora, del modo in cui oggi certi registi teatrali allestiscono la poesia di Shakespeare?
«Che disastro. Nemmeno in Inghilterra sanno più come farlo. Una volta quelle inglesi erano messinscene orrende, con scenografie ridicole, costumi osceni. Ma poi veniva fuori un Ralph Richardson, un Alec Guinnes... e la parola vinceva su tutto. Oggi ti mettono Amleto su una motocicletta, Gertrude e Ofelia diventano due lesbiche... Sa come commentava tutto ciò il maestro Giorgio Strehler? Quello è un modo fascista di fare teatro. Perché va contro ogni ragione».
E in Italia?
«Ogni tanto qualcosa di buono si vede. Ma è raro. In Italia non si da più il teatro. Ma il karaoke di ciò che una volta era il teatro».
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