Niente lagne, siamo inglesi. Ecco le signore dell'isola

Molto femmine e poco femministe. Da Elisabetta I ad Agatha Christie, i ritratti di nove donne speciali

Niente lagne, siamo inglesi. Ecco le signore dell'isola

Scrive Virginia Woolf: «Tra le due cose, il voto e il denaro, confesso che il denaro mi sembra infinitamente più importante». In nome del cervello, perché spiega (in Una stanza tutta per sé): «La libertà intellettuale dipende da cose materiali. La poesia dipende dalla libertà intellettuale. Le donne hanno avuto meno libertà intellettuale dei figli degli schiavi ateniesi... Ecco perché insisto tanto sui soldi e su una stanza tutta per sé». Per secoli il potere in Gran Bretagna è stato nelle mani degli uomini: i Lord, il trono, i club fumosi, i parrucconi, i collegi d'élite. Però non sempre. È stata soprattutto quella libertà di intelligenza di cui parla la Woolf, nonostante gli ostacoli e il tentativo di trattamento da «figli di schiavi ateniesi», a rendere alcune donne protagoniste della storia del Regno. Donne molto anticonformiste, e non a parole; anzi, spesso apparentemente poco femministe nei toni, quanto efficaci nella pratica. Pratica politica, regale, governativa, mediatica, letteraria, del costume.

Sono nove le «signore impareggiabili» che Roberto Bertinetti, esperto di Letteratura inglese (che insegna all'università di Trieste) racconta in L'isola delle donne, saggio che esce oggi in occasione del ventesimo anniversario della morte della principessa Diana (Bompiani, pagg. 352, euro 16) e che sarà presentato dall'autore a Pordenonelegge il 14 settembre (ore 17, Palazzo Montereale Mantica): Elisabetta I e Vittoria, Margaret Thatcher e Lady D, e poi le scrittrici Virginia Woolf, Jane Austen, Agatha Christie, e infine le stiliste Mary Quant e Vivienne Westwood. Donne diverse per epoca, famiglia d'origine, ruolo, mentalità, eppure collegate da alcune caratteristiche comuni, al di là del giudizio e della fama storica. Per esempio, ecco che cosa dice Malcom McLaren della ex compagna e socia Vivienne Westwood: «Aveva lo stesso dogmatismo e la stessa intransigenza di Margaret Thatcher, una mentalità ristretta da bottegaia, pensava sempre ai soldi». Parole pronunciate quando ormai il loro negozietto-scandalo in King's Road è chiuso e Vivienne ha creato un marchio di lusso, da milioni di fatturato l'anno.

Dogmatismo, intransigenza, senso pratico, guadagni. Una volontà di ferro accomuna le signore impareggiabili, anche quelle dal volto d'angelo come Lady D, che a partire dalla sua fragilità ha creato un mito, quello della principessa del popolo. Ovviamente la volontà di ferro è l'anima della Iron Lady, la prima donna premier del Regno Unito, cresciuta in una famiglia di commercianti di provincia, padre metodista con la stessa fede rigorosa nella religione e nel libero mercato, nonna rigidissima che insegna alla giovane Margaret la massima francescana che la ispirerà per tutta la vita: «Dove c'è l'errore, fa che io porti la verità; dove c'è discordia, fa che io porti l'armonia». Quando entra al 10 di Downing Street - è il maggio del 1979 e da anni ha sposato il ricco imprenditore Denis Thatcher - un giornalista le chiede se voglia dedicare un pensiero a Emmeline Pankhurst e alle suffragette. Risposta: «Nei confronti di mio padre ho un enorme debito di gratitudine».

Ma la volontà di ferro è anche quella di due regine, entrambe sottovalutate all'inizio dei loro regni e poi diventate così fondamentali per la storia d'Inghilterra e per la nascita dell'Impero da avere dato il loro nome a un'epoca: Elisabetta I e Vittoria. Elisabetta, la figlia di Enrico VIII e Anna Bolena, imprigionata nella Torre di Londra dalla sorella Maria scrive: «Vincit omnia pertinax virtus. Elisabetha Captiva». La «virtù tenace» è quella che segna il suo Regno di successi economici, militari, culturali; il suo unico obiettivo è la prosperità dell'Inghilterra. Si accorda con i pirati per sottrarre oro e navi agli spagnoli, si mette alla testa delle truppe quando devono fronteggiare l'Armada, prende in giro le corti di Francia e di Spagna fingendo di volersi sposare, mentre la «Regina Vergine» sposerà solo il suo popolo. Il suo tutore da ragazzina, il coltissimo Roger Ascham, dice di lei: «È libera da qualsiasi perniciosa debolezza femminea», oltre a imparare velocemente lingue straniere antiche e moderne. Lei ne fa teoria e pratica di governo quando, salendo sul trono, afferma di possedere «il corpo fisico di una donna» e «il corpo politico del sovrano d'Inghilterra».

Qualche secolo dopo, anche Vittoria costruisce un Impero, anche lei era considerata una «bambina». Invece, già nel giorno in cui muore lo zio e diventa regina, sul suo diario scrive: «Sono certa che pochi hanno maggiore buona volontà e sincero desiderio di quello che ho io di fare ciò che occorre e che è giusto». Perfino nove figli, lei che allo zio Leopoldo scriveva, appena dopo aver partorito la primogenita, di considerare una famiglia numerosa «un incomodo». Intelligente, determinata, innamoratissima del marito Alberto, Vittoria (sulla cui vita è uscito da poco il volume Victoria di Daisy Goodwin, pubblicato da Sonzogno, da cui è tratta anche l'omonima serie tv) riesce a fare amare - moltissimo - la monarchia dopo anni di sovrani detestati.

Il vero anticonformismo delle grandi signore inglesi nasce a partire da una formazione e un carattere spesso conservatori: come succede con Jane Austen e Agatha Christie, fra le scrittrici più lette e vendute ancora oggi, che della rivoluzione non hanno mai fatto bandiera. Eppure la prima ha portato il punto di vista delle donne nelle relazioni «con l'arguzia, l'intelligenza e la caparbietà di una signorina davvero sovversiva in ambito culturale». La Christie ritiene addirittura che le donne dell'Ottocento fossero più furbe: «Hanno avuto l'innegabile abilità di saper portare gli uomini a fare quello che volevano loro, mostrandosi fragili, delicate, sensibili... Erano davvero schiave e infelici, oppresse e umiliate? Non è così che le ricordo». Intanto lei viaggia per il Medio Oriente da sola, si risposa con un archeologo molto più giovane di lei, partecipa agli scavi di Ninive, diventa Dama del Regno, inventa Hercule Poirot e Miss Marple e coi suoi gialli, fino a oggi, ha venduto circa due miliardi di copie... Teorizzando, a proposito della scrittura, che «se chi fa questo lavoro vuole ottenere un utile è meglio che si attenga alle richieste di mercato».

Le signore impareggiabili sono sensibili al denaro, come le stiliste Mary Quant - che togliendo centimetri alle gonne e vendendo abiti «per tutte» ha fatto milioni, e compiuto una rivoluzione, non politica ma di costume - e Vivienne Westwood. Entrambe insignite di onorificenze da Sua Maestà Elisabetta II (grande assente dal saggio di Bertinetti), la prima a Corte in minigonna, la seconda inginocchiata dimenticando gli inni all'anarchia. Ma ai soldi era attenta appunto anche una scrittrice (e editrice) raffinata come Virginia Woolf.

E a proposito di «femminilità», in Una stanza tutta per sé dice la sua: «Per chiunque scrive è fatale pensare al proprio sesso. È fatale per una donna accentuare seppur minimamente le sue lagnanze; difendere qualunque causa, anche la più giusta; parlare in qualsiasi modo con la consapevolezza di essere donna». Più chiaro di così...

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