Lorenzo Pavolini è scrittore, autore radiofonico vicedirettore della rivista Nuovi Argomenti, direttore della scuola di scrittura Passaggi. Quest'anno partecipa al festival èStoria di Gorizia perché ha scritto un libro che incrocia perfettamente il tema dell'anno, «Fascismi». Come si può intuire dal cognome, suo nonno era il gerarca Alessandro Pavolini, fucilato a Dongo il 28 aprile 1945. Al nonno e al difficile percorso per avvicinarsi alla memoria di famiglia ha dedicato un romanzo, Accanto alla tigre (prima per i tipi di Fandango poi per Marsilio), che nel 2010 è stato finalista al Premio Strega. Un'indagine all'interno della storia, e di se stesso, per cercare di capire come leggere un passato scomodo. Ne abbiamo chiacchierato con lui, in anticipo rispetto all'incontro che si terrà a Gorizia domenica 29 maggio.
Quando ha scoperto che suo nonno era uno dei più noti gerarchi fascisti?
«La rimozione è una delle questioni centrali del libro, io chi fosse mio nonno l'ho scoperto a scuola negli anni '70. Mi avevano detto solo che era morto in guerra. Poi ho visto, mentre ero alle medie, su un libro, questa foto di piazzale Loreto, sopra uno dei cadaveri c'era scritto Pavolini...».
Ne ha parlato a casa con suo padre?
«No, non me ne aveva mai parlato, ho immaginato quanto dolore doveva esserci per aver avuto il padre fucilato e portato a piazzale Loreto. Il percorso di avvicinamento alla storia di mio nonno l'ho fatto sostanzialmente da solo. Quando ormai ero quarantenne, e stavo scrivendo il libro, ho preparato alcune domande per mio padre. Su molte ho avuto delle risposte. Del resto sono temi su cui aveva senso tornare solo quando si fosse raggiunta anche una distanza di sicurezza temporale, quando, per tutti, i segni sono diventati meno profondi. La mia famiglia, subito dopo la guerra, dovette anche cambiare cognome per un anno. È comprensibile che di certe cose non si parlasse. Invece dopo gli anni Novanta c'è stato anche un nuovo interesse storiografico. E non solo in Italia, Emmanuel Carrère nel 2007 ha scritto La vita come un romanzo russo. In esso Carrère indaga sul nonno materno, che dopo una vita difficile scomparve nell'autunno del 1944, probabilmente ucciso perché sospettato di collaborazionismo con i tedeschi».
Lei nel libro mantiene da suo nonno sempre una certa distanza...
«Mio nonno non mi era familiare. Mi è servito del tempo per avvicinarmi alla cultura di quegli anni, così diversa dalla nostra, al personaggio. Mi ha spinto anche Enzo Siciliano che aveva anche scritto una pièce dedicata a Galeazzo Ciano. Mi ha spinto il fatto che, visto il mio cognome, la gente mi chiedesse e io non avessi risposte».
Che idea si è fatta di Alessandro Pavolini?
«Mi sono fatto l'idea di una persona che ha, da subito, accesso a moltissime possibilità: dalla cultura -il padre di Alessandro Pavolini, Paolo Emilio, era un filologo - ai viaggi. Pavolini andò velocissimo, noi pensiamo di essere iperconnessi ma all'epoca la possibilità di fare era molto più alta, si fece permeare dallo spirito dannunziano e futurista dell'epoca. A tutto questo unì una incredibile facilità di scrittura che lo portò, rapidissimamente, a scrivere romanzi a collaborare con riviste come Solaria... Insomma un ragazzo poliglotta e dall'apprendimento fulmineo che si caratterizza per una grande serietà. Anche scalando i vertici del regime non dà l'impressione di mirare alla ricchezza. La sua caratteristica è l'intransigenza».
Intransigente, legato a Ciano e con Ciano subito proiettato verso la guerra d'Abissinia. Soffriva, rispetto ai fascisti della generazione prima, di non essere stato un ardito, di non aver partecipato alla guerra?
«Arrivò un po' dopo e mancò quell'esperienza che invece fece suo fratello maggiore Corrado. In lui c'è in effetti la volontà di farsi un pedigree da fascista duro e puro. Si vede dai suoi primi libri in cui racconta di aver partecipato a spedizioni punitive. Ma non penso si possa legare semplicemente alla questione di aver mancato la guerra».
Sicuramente si radicalizza molto nelle sue posizioni dopo il 25 luglio e soprattutto dopo l'otto settembre.
«Era stato destituito dai suoi incarichi di governo nel febbraio del 1943 e mandato a dirigere Il Messaggero. Incarico prestigioso ma chiaramente pensato per allontanarlo dalla politica attiva, Mussolini lo aveva chiaramente sacrificato. Avrebbe potuto staccarsi dal regime, prendere le distanze. Ma, al contrario, si schiera per il Duce e per il rispetto del patto con i tedeschi. Si sentiva un fascista integrale, le sue lettere sono chiarissime, per lui era inconcepibile scendere dalla groppa della tigre».
Un intellettuale raffinato che fu anche legato ai fratelli Rosselli e il fondatore delle Brigate nere: c'è uno iato profondo tra le due cose. O no?
«Alcune biografie di mio nonno come quella di Arrigo Petacco enfatizzano questo fatto. Creano un prima e un dopo e c'è una forza narrativa nell'immaginarsi che ci sia un cambiamento improvviso. Secondo me, invece, l'intransigenza di Pavolini è presente da sempre, deriva dal suo modo di vedere il mondo. Dalle sue esperienze precoci. Era permeato da un modo di vedere dove violenza e cultura erano strumenti politici, entrambi utilizzabili. Era figlio di un'epoca in cui questo, che per noi è inconcepibile, era concepibile. Gobetti ha parlato di infantilismo della nazione per spiegare il fascismo. Credo che mio nonno di quei miti, del culto della giovinezza come potenza che non si pone limiti, fosse portatore. Aveva in sé quel tratto infantile che è tipico dei totalitarismi».
Ma di questa violenza è rimasta memoria nella sua famiglia?
«Mio padre che era così pacifista che io da bambino non avevo nemmeno le pistole giocattolo. E diceva che la partecipazione diretta alla violenza, per come conosceva mio nonno, gli restava incomprensibile, che non era possibile. Negli scritti giovanili c'è, come dicevo, ma è sempre accompagnata con una certa goliardia. Al tempo della Repubblica sociale mio nonno è stato il fondatore delle Brigate nere, non poteva non sapere, non essere compartecipe. Ma di quel periodo non scrive, c'è un incapacità di raccontare quella violenza... Ma certo voleva un partito milizia, voleva la resistenza a oltranza, approvò cose violente come la spedizione di Ferrara. Ha organizzato i cecchini di Firenze... Su questo non c'è dubbio ha avuto precise responsabilità».
E sulla fucilazione di Ciano?
«Tra le responsabilità di mio nonno c'è anche quella: tra l'amicizia e la politica, tra ciò che è legame umano e la sua visione politica, ha scelto la seconda.
Lo ha fatto sempre, ci sono lettere in cui dice chiaro e tondo di essere cosciente di andare verso il plotone di esecuzione. Anche il ridotto della Valtellina e l'idea di finire come in una sorta di Masada si spiegano così».
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