«Psiche, l'invisibile, noi l'amiamo in eterno perché è l'assente». Queste parole di Marina Cvetaeva condensano il fascino del mito di Amore e Psiche, forse la più antica storia d'amore del mondo. La favola, che compare per la prima volta in Occidente nelle Metamorfosi di Apuleio, racconta le disavventure di Psiche (in greco anima), così bella da andare in odio a Venere, che costringe il figlio, Amore, a farla innamorare del più vile tra gli uomini: Amore, però, pungendosi per sbaglio con una delle sue frecce, si innamora di Psiche, con cui si unisce al buio per molte notti, nascondendo la sua identità e facendosi promettere dall'amata di non volerlo mai vedere. Istigata dalle perfide sorelle, Psiche, però, entra nella stanza con una lanterna. Furioso, Amore si dilegua e Psiche è costretta a innumerevoli prove per ottenere il perdono: alla fine, sposerà Amore, e dalle loro «nozze eterne» nascerà Voluttà. Interpretata, secondo coordinate platoniche e cristiane, come una metafora del viaggio dell'anima verso dio, la favola ha avuto un numero infinito di riprese: da Raffaello a Canova, da Keats a Pascoli, passando per Il flauto magico mozartiano. Nel suo Storie di Amore e Psiche (L'asino d'oro), però, Annamaria Zesi ci conduce alla scoperta di altre 19, meno note versioni della fiaba: un viaggio che va dall'India alla Persia, dall'Egitto alla Turchia, dalla Grecia a Napoli, da Venezia alla Sicilia fino ad arrivare ai mari del Nord e alla Russia. Il nucleo centrale non muta: una ragazza si innamora di un insolito e sconosciuto amante, ma infrange il divieto di indagare il patto di segretezza che li lega. Per ritrovare l'amore, dovrà passare per le prove inflitte da una strega, o affrontare lunghi viaggi soccorsa da magici aiutanti. Come accade nella magnifica versione norvegese, in cui la giovane, per ritrovare il suo principe scomparso, chiede ad una vecchia «la strada per il castello a Oriente del Sole e a Occidente della luna», e monta in sella prima al Vento dell'est, poi a quello del Sud, poi a quello dell'Ovest e infine al Vento del Nord fino ad arrivare al castello del suo amato. Alcune, come Lo Turzo d'oro di Basile, hanno un finale vorace e mostruoso.
Altre, invece, come la variante veneziana, Le tre montagne sorele che bala, sono quasi prodromi della commedia dell'Arte, in cui lo sposo-bestia, lungi dal languire in attesa del bacio impossibile della sua bella, «sta tuta la note co ela, a far l'amor».
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