Oggi il Giornale presenta una nuova rubrica: La cultura non si cancella. Avrà cadenza settimanale e uscirà sull'edizione del martedì. Lo scopo è documentare i danni alla libertà d'espressione e alla conoscenza causati dalla cosiddetta cancel culture, cultura della cancellazione.
Qualche buontempone sostiene che la cancel culture non esista. Per questi (inconsapevoli) complottisti, sarebbe una invenzione della destra, che se ne servirebbe per legittimare azioni e parole razziste, omofobe, patriarcali, colonialiste (chi più ne ha, più ne metta).
Questa posizione è segno di malafede o anche di ignoranza. Innanzi tutto è smentita dalla cronaca. Citando un po' alla rinfusa, nelle ultime settimane abbiamo letto sui giornali: polemiche sulla statua di Guglielmo Marconi, genio ma fascista, quindi indegno; polemiche sull'eliminazione della espressione «immondo sangue di negri» da Un ballo in maschera (1858) di Giuseppe Verdi; polemiche, a Livorno, dove c'è una targa per Stalin, sulla intitolazione di una via a Oriana Fallaci, intollerante; polemiche sulla statua di Margaret Thatcher, feroce neoliberista. Ci sono poi autentici tormentoni, che riaffiorano ogni anno: le statue di Indro Montanelli (pedofilo), Thomas Jefferson (schiavista), Cristoforo Colombo (colonialista), David Hume (razzista), Albert Einstein (patriarca) e ci fermiamo qui. Se ci limitassimo a segnalare e biasimare i casi di cronaca, perderemmo di vista la vera natura della cancel culture. Le baruffe intorno ai singoli avvenimenti o personaggi sono solo la punta dell'iceberg. Meno visibile, almeno in Italia, è il contesto ideologico in cui vanno collocate queste vicende. Un rapido ma preciso vademecum è il saggio Woke. La nascita di una ideologia (Idrovolante edizioni) di Francesco Erario.
Woke (risveglio) si dice di chi si sente consapevole delle ingiustizie dovute al razzismo, alle disuguaglianze, alla discriminazione delle minoranze. Che fare? Il potere si esprime attraverso le parole e i simboli. Il linguaggio dunque è uno strumento di oppressione, che va analizzato («decostruito») ed epurato. E qui si collocano gli episodi come appunto l'idea balzana di «riscrivere» il libretto di Giuseppe Verdi o correggere i classici come Via col vento. Per la cultura della cancellazione, non esistono gerarchie tra civiltà ma solo gradi di sottomissione al modello occidentale, spacciato per universale attraverso il colonialismo (di ogni tipo, dalle guerre di conquista alla conquista dell'immaginario attraverso i consumi). E qui si collocano gli episodi come appunto l'idea di abbattere la statua di Cristoforo Colombo.
Militanza politica e teoria nascono assieme: sono inscindibili. I «teorici» sono molto «pratici» nell'esaminare ogni forma di produzione culturale per «stanare pregiudizi e comportamenti oppressivi, malcelati dietro un'inammissibile normalità, per esporli pubblicamente ed epurarli» (così Erario). Niente e nessuno può dirsi al sicuro. Gli effetti sono micidiali: una parola di troppo, anche risalente a decenni prima, e sei espulso dalla vita pubblica e dal consesso delle persone civili.
Naturalmente, nessuno pensa che le battaglie per i diritti civili siano sbagliate, ma qui siamo di fronte a qualcosa di completamente diverso. I risultati della cancel culture sono censura, autocensura, limitazione della libertà di espressione e una crescita esponenziale di ignoranza arrogante. Per studiare e capire la storia, l'approccio peggiore è giudicarla con le categorie attuali. Non sembra incredibilmente stupido bocciare Cristoforo Colombo a distanza di secoli? Non è grottesco dipingere un esploratore come l'alfiere del colonialismo assassino? Eppure...
Anche la distinzione dei sessi è apertamente contestata: non è un fatto biologico ma culturale. Io scelgo di essere uomo o donna o nessuno dei due sessi. La distinzione non è altro che un modo di perpetuare il potere del maschio bianco, occidentale e capitalista. E qui si collocano le battaglie al limite del comico, ma pericolose, come l'introduzione dell'asterisco o della schwa. Le discussioni su genitore uno e genitore due al posto di madre e padre possono sembrare bizzarrie o poco più ma non lo sono. È un fatto di sostanza, anzi: di alterare la sostanza dei fatti. Anche il sesso, meglio: il genere, diventa un campo «in cui progettare una società nuova e rivoluzionaria» (Erario). E qui si collocano gli episodi come il linciaggio social a cui è regolarmente sottoposta J.K. Rowling, l'autrice di Harry Potter, per aver scritto che la biologia ancora conta qualcosa.
C'è un fatto da valutare in anticipo, nella speranza non si verifichi anche da noi, col consueto decennale ritardo rispetto al resto del mondo. Le università anglosassoni, specie le statunitensi, fanno a pugni per varare filoni di studio da brivido, all'insegna proprio della cancel culture, mascherata da «giustizia sociale». Le facoltà «più inclusive» sono anche le più finanziate. Presto avremo una nidiata di studenti convinti che il sapere non coincida con la ricerca ma con il miglioramento del mondo a discapito della pluralità d'opinione.
L'altro terreno sul quale la cancel culture può avere un impatto decisivo nel mandare in rovina l'Occidente è il diritto. Le rivendicazioni di un numero crescente di minoranze (spesso astoriche e inventate di sana pianta) portano «a leggi diseguali caratterizzate da eccezioni», come ha spiegato (inutilmente) Giovanni Sartori. I diritti di cittadinanza dello Stato liberale sottraggono l'individuo all'arbitrio perché le leggi si applicano senza distinzioni.
Al contrario, la moltiplicazione dei diritti, attribuiti in funzione dell'appartenenza a una minoranza culturale o etnica e protetti da leggi ad hoc, porta alla frammentazione e reintroduce l'arbitrio. Allo Stato è attribuito il dovere di intervenire e il potere di discriminare. Con tanti saluti alla libertà.Ecco perché ci serve la nuova rubrica.
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