Cultura e Spettacoli

Ora basta con i soliti classici. È un classico del conformismo

Invece di puntare su grandi libri dimenticati si sceglie di non scegliere. Cioè di affidarsi all'usato sicuro

Ora basta con i soliti classici. È un classico del conformismo

Che gli editori abbiano riscoperto la passione per i classici porta a un paio di considerazioni. Primo: gli scrittori italiani, alfieri del proprio ombelico, viziati dalla tara di un sociologismo stantio, non funzionano, scrivono libri generosamente modesti, genericamente noiosi. Secondo: i lettori italiani sono mediocri; privi di curiosità, di gusto corsaro per l'avventura, leggono sempre gli stessi autori, quelli famosi, che vanno di moda. Alle due norme fa seguito una terza: l'usato sicuro. Si traducono sempre le stesse cose, in libreria sfila il plotone degli scrittori consueti, consolidati dall'ideologia democratica; insomma: al popolo bue, nel trogolo editoriale, si offre sempre la stessa pappa, avariata.

Un esempio: il Saggiatore. Editore altrimenti estroso nell'oceano della letteratura contemporanea (ha scommesso su Davide Orecchio, Giancarlo Liviano D'Arcangelo, Ivan Carozzi, Lorenzo Monfregola), si scopre reazionario col tutù, vittoriano col colbacco quando inaugura la sua bella collana di classici. Le prime uscite sono da Cencelli della cancelleria bibliografica: le Satire di Ariosto a cura di Ermanno Cavazzoni (nello stesso anno in cui Einaudi rimanda la nuova edizione aggiornata delle Satire curata da Cesare Segre), le Lettere a un giovane poeta di Rilke (che ci siano anche le lettere del giovane poeta, tale Franz Xaver Kappus, poco vale: il Siddharta dei lirici della domenica in cerca dell'Oriente poetico esiste in svariate versioni, la più nota è quella Adelphi, seguono, a ruota, Mondadori, Mattioli 1885, Qiqajon), La terra devastata di T.S. Eliot, che con il titolo più noto - La terra desolata - esiste, desolatamente, in moltissime traduzioni: cito, a memoria, quelle di Mario Praz (Einaudi), di Roberto Sanesi (Bompiani), di Angelo Tonelli (Feltrinelli).

Il capolavoro di Eliot è, come si sa, del 1922, lo stesso anno in cui esce il romanzo del secolo, Ulisse di James Joyce. Benché del libro máximo di JJ esistano notevoli traduzioni (da quella di Giulio De Angelis a quelle di Enrico Terrinoni per Newton Compton, Gianni Celati per Einaudi, Mario Biondi, l'anno scorso, per La nave di Teseo, de gustibus), Feltrinelli sta per stampare la sua versione, firmata da Alessandro Ceni, tra i grandi poeti italiani viventi, sarà bellissima.

Qui, sia chiaro, non si tratta di giudicare la bontà della traduzione: siamo tutti consapevoli della necessità di ritradurre i classici, con costanza decennale, perché la lingua cambia e il mondo pure, l'alchimia verbale è ineffabile (io tradurrei per tutta la vita le Illuminazioni di Rimbaud, La tigre nella giungla di Henry James, Chadzi-Murat di Tolstoj), e via con i violini accademici. Il discorso fila, però, se i soliti nomi vengono installati in una collana che non si stanca di riesumare i classici sepolti nell'oblio, che pagano l'obolo della nostra intrepida ignavia. Così, per dire, la collana di classici Feltrinelli spicca per ovvietà: tra gli ultimi titoli ci sono H.P. Lovecraft, Virginia Woolf, Arthur Conan Doyle, Francis Scott Fitzgerald (non c'è editore, grande o microscopico, che non abbia in catalogo Il grande Gatsby), Alexandre Dumas, sai che novità. Anche «I Classici Bompiani», per altro - copertina rigorosa, icastica, un poco tombale -, non scherza, gli ultimi titoli paiono cavati da un'antologia scolastica: Il libro della giungla di Kipling (traduzione, però, bellissima), Dracula di Bram Stoker, Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll, Il rosso e il nero di Stendhal, Jane Eyre di Charlotte Brontë. Nella collana più nobile, «I classici della letteratura europea» hanno stampato un libro improponibile (2912 pagine a 50 euro) che raduna Poesie e prose di Konstantinos Kavafis, poeta ormai di culto, che leggiamo in tutte le salse e in tutte le sedi: c'è un Kavafis per Einaudi (doppio, in verità: all'edizione curata da Nelo Risi segue quella di Nicola Crocetti, autentico esperto, che già ha pubblicato KK in lungo e in largo per la sua casa editrice), uno per Garzanti (a cura di Andrea Di Gregorio), uno per la Bur (a cura di Massimo Scorsone), uno per Adelphi (a cura di Guido Ceronetti), uno per Donzelli (a cura di Paola Maria Minucci), e poi Passigli, Dalai, La Vita Felice, Via del Vento...

Il vanto degli editori pare essere quello di proporre il canone delle ovvietà, il regesto delle belle statuine, un collier di strabiliante qualunquismo. Gli esiti, spesso, rasentano il grottesco. Quest'anno - scadevano i diritti, dunque, liberi tutti - ci siamo sorbiti George Orwell in quantità implacabile, con gli equini traduttori in fila a tradurre in comunella lo stesso romanzo. Ci siamo resi conto, così, che Orwell è un romanziere più modesto di molti altri, un saggista di genio. Idem per Pavese: il bombardamento editoriale, da destra a manca, sopra & sotto, ci ha convinto che in Italia è necessario un canone inverso, diverso - che contempli, per dire, Massimo Bontempelli, Guido Piovene, Giuseppe Berto, Mario Pomilio - e che il buon Cesare era un nietzschiano annacquato nel Barolo, pace all'anima sua. D'altronde, nell'orbita dell'anniversario - i 200 dalla nascita - di Dostoevskij si ritraducono sempre gli stessi libri (Neri Pozza le Memorie dal sottosuolo, Feltrinelli L'adolescente, Mondadori Delitto e castigo, che palle, finiranno per farci odiare un gigante); di Irène Némirovsky si setacciano perfino i testi più infimi, eppure mancano, nel parterre editoriale italico, libri di assoluta importanza come le Antimemorie di André Malraux, Éden, Éden, Éden di Pierre Guyotat, il ciclo de Les Jeunes Filles di Henry de Montherlant, romanzi che nanificano scrittori dal talento fotogenico come Emmanuel Carrère e Michel Houellebecq.

Certo, per costruire una autentica collana di classici - e non l'album delle figurine - ci vorrebbe spavalderia, istinto da segugi e da tombaroli, sapienza e competenza: attributi che mancano all'editoria odierna, supina al delirio del denaro e al sopore salottiero. Nei torbidi Novanta fu Aldo Busi a trovare la giusta alchimia bibliomantica ideando per Frassinelli «I Classici Classici»: alternava la ritraduzione di grandissimi testi (Il ritratto di Dorian Gray, Illusioni perdute, Frankenstein, Moby Dick) al recupero di testi meno noti di autori notissimi (Pendennis di Thackeray, Vittoria di Joseph Conrad, Daniel Deronda di George Eliot) alla scoperta di libri pressoché ignoti (Setteformaggi di Jean Paul, Confessioni di un peccatore impeccabile di James Hogg, La prateria di James Fenimore Cooper, Il grande specchio dell'omosessualità maschile di Ihara Saikaku). Durò poco. L'ambito della scoperta, nel campo del classico, è pressoché infinito: da Marcel Jouhandeau a Jean Grosjean, da Cecil Day Lewis a Velemir Chlebnikov, da Thomas Wolfe a Joseph Joubert a Peter Weiss che con Die Ästhetik des Widerstands scrive uno dei romanzi folli, enciclopedici e inauditi del secolo scorso. È ancora intradotto in Italia.

Sono in vena di consigli gratuiti. Infine inutili.

Dei classici abbiamo fatto un culto, un museo delle cere, una museruola; a questo punto, sapremo farne a meno.

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