Cultura e Spettacoli

Gli orrori nazisti nella Varsavia occupata. Nonno e nipote uniti dal dovere del ricordo

Nicola Brunialti racconta con stile convincente la persecuzione degli ebrei

Gli orrori nazisti nella Varsavia occupata. Nonno e nipote uniti dal dovere del ricordo

È potente la voce narrativa di Nicola Brunialti che in Un nome che non è il mio (Sperling &Kupfer) si conferma tra gli scrittori italiani capaci di raccontare una storia che mantenga dignità stilistica e originalità di trama davanti a tematiche tanto indagate quanto difficili come l'antisemitismo. Un orrore che, lo sappiamo anche dalle cronache, non è mai stato superato: gli ebrei continuano a essere vittime dell'ignoranza. Da qui parte Brunialti: da un ragazzo che sul muro della sua scuola dipinge una svastica e scrive «Hilde Biermann puttana ebrea». Dopo questo gesto, ci si ritrova in una lettura che non si riesce a interrompere anche grazie al continuo cambio di registro narrativo: Brunialti alterna, di capitolo in capitolo, presente e passato, la vita del ragazzo con quella del nonno che rivela al nipote, per la prima volta, di essere stato perseguitato durante la guerra nella Varsavia dove è cresciuto, dove ha perso i genitori, dove ha incontrato Hilde Biermann, una «Schindler» donna che ha salvato migliaia di uomini, donne e bambini ebrei. Nonno e nipote partono insieme per un viaggio sui binari della memoria raggiungendo i luoghi di quell'infanzia sfregiata. Al contempo il ragazzo si confronta con un presente dove la scuola, più che maestra di vita, è una lezione da mandare a memoria. Brunialti ci racconta questa storia, tra realtà e finzione, con una scrittura poetica ma al contempo molto lontana dai libri «da Giorno della memoria». Perché per il nonno protagonista ogni giorno è un giorno della memoria e lo diventa anche per il ragazzo che vedrà quella svastica nera disegnata su un muro diventare la luce della propria (in)coscienza.

Scoprirà gli orrori nazisti in una Varsavia che Brunialti sembra aver abitato: perché ogni palazzo, ogni mattone, ogni strada, ogni gradino sembra calpestato dall'autore e descritto in punta di penna. Una fisicità dei luoghi che è molto rara, di solito le città sono raccontate ma non davvero vissute dagli scrittori. Sentiamo vividamente i passi dei soldati tedeschi, siamo accecati, come lo erano gli ebrei ma anche gli stessi aguzzini, dagli stivali sempre lucidi dei nazisti ma soprattutto Brunialti ci racconta la tragedia un attimo prima che accada. Quando la follia non era ancora una soluzione finale, ma se ne avvertivano le avvisaglie e ancora, sia per i soldati che per gli ebrei, era una guerra impari in cui, tuttavia, era ancora permessa una resistenza e una speranza. La bellezza del romanzo è soprattutto quando tutto deve ancora accadere: nell'istante stesso che il giovane ragazzo disegna la svastica e quella svastica diventa un tatuaggio indelebile sul braccio degli ebrei. Un racconto da brivido - perché in (p)resa di coscienza quasi diretta, come se fossimo lì ma non con la facile emozione da La vita è bella: con la sensazione, pagina dopo pagina, che il razzismo è difficile da sradicare in ognuno di noi. E non è retorica: è quello che ci fa capire questo romanzo che lascia cenere al vento che entra nei nostri occhi e non ci illude, il lieto fine sta a noi scriverlo perché noi tutti scriviamo la storia.

Un nome che non è il mio è uno specchio di inchiostro dove molti ragazzi potrebbero riflettersi e rifletterci.

Anche grazie all'abilità di Nicola Brunialti, autore poliedrico, di formazione pubblicitario ai massimi livelli italiani, autore televisivo di Paolo Bonolis, autore di una canzone per Renato Zero, ma soprattutto scrittore che conosce il dolore, la malattia, la morte perché l'ha abitata e l'ha vinta.

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