Cultura e Spettacoli

Patrizia Cavalli, la poesia che (non) cambia il mondo

Fra le massime poetesse del nostro secondo '900, era chiara, diretta, "vera": e perciò popolare

Patrizia Cavalli, la poesia che (non) cambia il mondo

Di una donna è difficile lodare l'intelligenza. In poesia, per lo meno. Il canone, in effetti, è fitto di poetesse-mantidi, di poetesse-amazzoni, di vergini leggiadre come una fiala di vetro. Le poetesse-pitonesse per cliché matrilineare scrivono usando il corpo, rimano nel sangue; Patrizia Cavalli preferiva la testa, l'acido lattico del cecchino. Non sbraitava; sapeva colpire con esattezza ennesima. Amava, nel lettore, l'uomo colpito a freddo da un colpo di genio, che s'inchina, gergo di abbandono geometrico. Forse per questo voleva farsi chiamare «poeta»: sostantivo che degenera i generi, declina un destino, consegna l'erma di una responsabilità.

Dicono sia poeta «facile», che piaceva «al grande pubblico»: tutte cose che fanno felici gli editori e i detrattori della poesia, ma che i poeti per presunzione assolti, assoluti tengono in sospetto. Diceva che era stata Elsa Morante a riconoscerla, «sei un poeta», riconoscendo, dunque, che la poesia richiede un'investitura, pretende che le sia investita una vita intera. A Silvia Ronchey disse che la musa «è un empito ragionante, un empito che ragiona»; insomma, non è effervescenza biancovestita, fluorescenza che sorride e invade, ma la brutalità del pensare. Eppure, pur maschia, non era virile, Patrizia Cavalli: probabilmente ritrosa, forse schiva, sorrideva con nitore nipponico, aveva gli occhi larghi di chi ne contiene a migliaia, di occhi, perfino sui polpastrelli, sui gomiti, nelle anche.

Esordì nel 1974, per Einaudi, con Le mie poesie non cambieranno il mondo. Un titolo congeniale ovviamente donato alla Morante che sarà ripreso nella notevole traduzione dei selected poems stampati per Farrar, Straus and Giroux come My poems won't change the world. In copertina, la Cavalli è seduta su una sdraio, maneggia una tazza di tè, i piedi tradiscono tensione, forse imbarazzo, ma il viso è quasi inespressivo, pare l'icona della Giustizia e quella della Melancolia. È stata tradotta da alcuni tra i più noti poeti d'oltreoceano, Jonathan Galassi, Mark Strand, Susan Stewart, Jorie Graham. Tutti citano Datura (Einaudi, 2013), Sempre aperto teatro (Einaudi, 1999), perfino il romanzo, Con passi giapponesi naturalmente anti-, sillabico, sibillino, istrione , che ottenne un Campiello, nel 2020. Io consiglio di riprendere in mano, piuttosto, Il cielo (Einaudi, 1981) e L'io singolare proprio mio (Einaudi, 1992), che ha al centro il poemetto omonimo, gioco di fibrillante arguzia, che stempera la presunzione in nubifragio di cristalli (esempio: «Se quando parlo dico sempre io/ non è attenzione particolare e insana/ per me stessa, non è compiacimento,/ ché anzi io mi considero soltanto/ un esempio qualunque della specie,/ perciò quell'io verbale non è altro/ che un io grammaticale»). La Cavalli, cioè, non era come è stato decretato, in un puzzle di tributi incrociati una specie di Wislawa Szymborska meno spiritosa, una Emily Dickinson de noantri: a me pare una donna (anche fisicamente) fuori tempo, attratta dalla fisiologia verbale del Seicento, una specie di poeta «metafisico», più vicina a George Herbert che al John Donne idolatrato da Cristina Campo (la geniale algida della letteratura nostra), con i blasoni di una Juana Inés de la Cruz, un'altra che sovvertiva gli intellettuali per sovrappiù d'intelletto, rimbambiva le tenebre tra delizie d'arguzia.

Ma queste sono quisquiglie, cibo per quaglie. La Cavalli piaceva ad Alfonso Berardinelli, uno a cui non piace quasi nessuno e ha il talento di dire in modo forbito concetti altrimenti banali (esempio: «La vera e migliore poesia sta in piedi da sola, basta leggerla, non ha bisogno di esplicazioni, analisi, commenti e perorazioni avvocatesche»). In effetti, di lei hanno scritto quasi tutti, a volte in modo misteriosamente accademico (questo è Stefano Giovanardi: «Dramma e ironia, sofferenza e spallucce, desideri e irrisioni, si confrontano costantemente senza che mai l'una dimensione danneggi o riduca l'altra, ma anzi in modo che si arricchiscano vicendevolmente: un personalissimo miracolo... una delle più originali esperienza diaristiche della poesia del secondo Novecento»), di solito in forme superficiali.

Dicendo di Vita meravigliosa (Einaudi, 2020), l'ultimo libro di quella «autrice di culto», Roberto Galaverni non ha taciuto i «momenti di stanca, interlocutori», di una poesia che rischia la monotonia, perché non di sola mente vive l'uomo. Se devo scegliere, mi piace come di lei ha parlato Andrea Di Consoli, in un profilo pubblicato un paio di anni fa su Pangea: «La poesia della Cavalli io la vedo come una donna che fa l'amore senza mai chiudere gli occhi. Anche nell'abbandono più evidente l'occhio rimane sempre vigile sui dettagli più terreni, più umani, più prosaici. Si sente che questa poetessa ha molto vissuto, perché solo chi ha molto vissuto è distante dall'atto poetico come atto religioso».

Non priva di versi perentori, gravidi di grazia epicurea («Rendi comunque onore a ciò che hai amato/ anche quando ti sembra di non amarlo più»), la Cavalli, forse, si rispecchiava in questa antica poesia, che ha il nitore di un epitaffio: «Ha preso un'aria strafottente/ come chi ormai conosce/ altri mondi e a questa vita/ comoda e tranquilla/ non ci crede più».

«Non si muore d'estate», rivela Cesare Pavese in Mito, poesia di frugale bellezza. Patrizia Cavalli se ne va sul ciglio della nuova stagione, bella come un frutto appena sbucciato, aprendo la porta. Nei campi mietono il grano, i covoni sembrano molteplici soli, qualcuno mozza la testa alla vipera.

Ai poeti va tributato il timore: spariscono, proprio quando c'è più luce e le finestre, mature, esplodono.

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