"La paura è un orso feroce visto con gli occhi di una bambina sperduta"

La scrittrice: "Un grizzly attacca una coppia I due figli restano soli e devono sopravvivere"

"La paura è un orso feroce visto con gli occhi di una bambina sperduta"

Eleonora Barbieri

La trama, dice Claire Cameron, si può riassumere così: «Una famiglia va in vacanza, in campeggio, in un'area selvaggia e isolata. Quando un orso attacca e uccide i genitori, i due figli piccoli si ritrovano da soli. È una storia di sopravvivenza, raccontata attraverso gli occhi di una bambina. Ma in fondo è una storia sull'imparare a vivere, e a vivere con il dolore. E su come passare attraverso delle difficoltà ci renda più forti». L'area remota è Bates Island, nell'Algonquin Park, in Canada. L'attacco dell'orso è avvenuto davvero, nell'ottobre del 1991 (ma i bambini nella realtà non c'erano). Claire Cameron aveva lavorato lì l'estate precedente, e ci era tornata in quella successiva. Così è nato il suo romanzo L'orso, che ora è pubblicato in Italia da Sem (pagg. 300, euro 17; in libreria dal 26 aprile) e che la scrittrice canadese presenterà al Salone di Torino (11 maggio, ore 15.30). I protagonisti sono Anna, cinque anni, e il suo fratellino Alex, detto Colla, di tre. Per tutto il libro, il punto di vista è proprio quello di Anna, ed è questo a renderlo più impressionante e anche commovente.

Perché ha deciso di scrivere una storia così sconvolgente?

«Avevo lavorato per due anni a una storia di una rapinatrice di banche che viveva nel deserto. Mi piaceva, ma non funzionava. Poi, un lunedì mattina, mi sono alzata, mi sono seduta al computer e ho aperto un file vuoto. Da settimane, nella mia testa c'era la voce di un bambino. Dopo il primo paragrafo mi è tornato in mente l'attacco dell'orso all'Algonquin Park: mi aveva perseguitato per anni. E ho iniziato a scrivere attraverso gli occhi di un bambino».

Ha lavorato lì per due estati. Non aveva paura?

«Avevo fatto domande, ma nessuno aveva risposte. Se ne parlava intorno al fuoco, come di una storia di fantasmi. Ero confusa. Ho incontrato spesso degli orsi, ma erano sempre timidi e stavano alla larga dalle persone, al massimo cercavano di rubare il mio cibo, di rosicchiare qualche mela...».

L'idea del romanzo le venne già allora?

«No, solo molti anni dopo, quando mi trasferii a Toronto. Pensavo di portare i miei due figli piccoli in canoa all'Algonquin park, ma ho capito che avevo paura. Adoravo quel posto e, in realtà, non avevo davvero paura degli orsi; quindi di che cosa aveva davvero paura?».

Di che cosa?

«Mentre scrivevo ho capito che ero spaventata che succedesse qualcosa, e che dovessi abbandonare i miei figli. Mio padre è morto quando ero giovane. Quando sono diventata madre ho capito come possa essersi sentito, a lasciare i suoi figli. Ero terrorizzata che potesse accadere di nuovo».

Come ha lavorato sullo stile del romanzo?

«Ho scritto la prima bozza velocemente. Avevo catturato la voce, e la tensione. Poi ho impiegato tre anni a correggerlo e sistemarlo».

Come mai ha scelto il punto di vista di una bambina?

«All'inizio i protagonisti erano due maschi, come i miei figli. Ma non riuscivo a costruire il personaggio del fratello maggiore. Poi ho capito che aveva molte cose in comune con me: le paperelle sul pigiama, la passione per i cerotti, gli zuccherini sui biscotti, le Barbie. Il personaggio non era affatto un bambino. Ero io».

Ha pianto mentre scriveva?

«Quasi ogni giorno. Ma ho anche riso... Come se fossi entrata nella mentalità di un bambino».

Come ha creato le immagini, i pensieri di Anna?

«Mio figlio di 5 anni parlava moltissimo: ho iniziato ad ascoltarlo. Le conversazioni con lui mi hanno aiutato a capire come potesse essere la vita interiore di Anna, e anche a lasciare andare l'immaginazione».

Perciò ci sono aspetti un po' magici?

«Come tutti i bambini, Anna usa il mondo che conosce, il cane dei vicini, i suoi giochi, come punto di riferimento per spiegare una situazione che non capisce. E a volte le serve la magia, per far combaciare le cose».

L'attacco dell'orso, quello vero, sembra essere rimasto senza spiegazioni.

«Quando avvengono delle tragedie, tendiamo a cercare risposte sul perché siano accadute. Trovare una colpa o una ragione significa che possiamo usarla come una protezione: per essere al sicuro, basta non ripetere lo stesso errore. Ma la verità è che la maggior parte delle tragedie sono più complicate, e possono accadere di nuovo. È dura esserne consapevoli».

L'orso ha al centro la paura. Commuove e angoscia, ma senza mai parlare di dolore, di perdita, di morte.

«Quando ho capito che quella bambina ero io, ho capito anche che la storia aveva più livelli. Lavoravo attraverso la paura a un livello immediato, ma anche sul piano di ciò che significa preoccuparsi dei propri figli e comprendere che sono vulnerabili. Io vedevo attraverso gli occhi di Anna. Avevo paura per lei, ma non potevo aiutarla. È stato terrificante».

Però scrive che la pace è possibile, anche con l'orso.

«Credo significhi che si può imparare a vivere con il dolore.

Dopo che mio padre è morto, per molti anni ho aspettato il momento in cui l'avrei superato. Poi ho avuto dei figli miei. E ho provato la sensazione della perdita, da capo. Ma dentro c'erano anche comprensione, accettazione, amore. Cose bellissime. Che possono stare insieme».

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