"Una pistola in vendita" e tante vite in prestito. L'arte di Graham Greene

Nell'autore inglese, l'azione e le atmosfere esaltano le psicologie dei personaggi

"Una pistola in vendita" e tante vite in prestito. L'arte di Graham Greene

Nel 1936, quando uscì A Gun for Sale, Una pistola in vendita, che ora Sellerio meritoriamente ripubblica (a cura di Domenico Scarpa, introduzione di Giancarlo De Cataldo, traduzione di Adriana Bottini, pagg. 312, euro 15), Graham Greene era un trentenne scrittore dal successo altalenante. Aveva avuto un esordio brillante, dopo un paio di rifiuti, nel 1929, con L'uomo dentro di me, lo aveva bissato, anche qui dopo un altro paio di inciampi, nel 1932, con Il treno per Istanbul, aveva continuato ad alternare la pratica del giornalismo alla pratica della scrittura e ripreso a viaggiare, sua passione giovanile ancora incentrata sull'Europa, l'Irlanda, la Francia, la Germania, e che ora si allargava a Sierra Leone, Liberia, Messico. Non è chiaro se già allora lo facesse per il Sis, i servizi segreti inglesi, da cui sarà poi arruolato ufficialmente nel 1941, o per passione propria, oppure mischiando l'una e l'altra a seconda dell'interesse preminente, altra pratica che si portava dietro dalla prima giovinezza. Ventenne, si era iscritto al Partito comunista inglese sperando così di viaggiare gratis per l'Unione sovietica, e ne era uscito non appena la speranza si era rivelata un'illusione...

Una pistola in vendita è un Greene d'annata, di quelli cioè invecchiati bene, dal congegno perfetto, dai caratteri potenti: è la storia di Raven, un sicario a pagamento incaricato di uccidere un leader cecoslovacco socialista e pacifista, tradito dai suoi stessi mandanti, mercanti d'armi che da quell'assassinio si propongono, come già avvenne per Sarajevo e la Prima guerra mondiale, di arricchirsi scatenando un nuovo conflitto. Raven è uno che «è stato impastato con l'odio, l'odio lo aveva plasmato in quella esile scura sagoma di assassino sotto la pioggia, braccata e brutta. Non aveva mai provato la minima tenerezza per nessuno. Era stato plasmato in quella immagine e ne andava, a suo modo, fiero. Non voleva essere disfatto. D'improvviso lo colpì con terribile certezza l'idea che, se voleva salvarsi, ora più che mai doveva essere se stesso. Non è con la tenerezza che si diventa svelti a estrarre la pistola». È anche per questo che ha imparato a non fidarsi di nessuno, consapevole che «per un uomo il mondo è la sua vita» e il suo destino «essere tradito di volta in volta da tutti, finché ogni strada verso la vita fosse inesorabilmente bloccata. Invece il vero problema, una volta venuti al mondo, era di riuscire ad andarsene in modo più pulito e sbrigativo di come si era entrati».

Storia di un'impossibile redenzione, Una pistola in vendita è anche lo straordinario ritratto in bianco e nero di un'Inghilterra proletaria e piccoloborghese che in quegli anni Trenta così gravidi di eventi continua a starnazzare come se niente fosse, la stessa che al George Orwell rientrante ferito e sconfitto dalla guerra di Spagna suggerirà «il profondissimo sonno inglese, da cui a volte temo non ci sveglieremo mai finché non ne saremo strappati di colpo dal boato delle bombe».

In maniera superficiale Greene è stato a lungo considerato uno scrittore di avventure e di spy-stories. Il décor dei suoi romanzi è spesso esotico, Cuba e il Messico, Haiti e l'America latina, l'Indocina e i Balcani, i suoi protagonisti sono giornalisti e diplomatici in crisi, uomini d'affari sull'orlo del fallimento, sacerdoti senza più religiosità. L'aver lavorato con successo nel mondo del cinema ha, se così si può dire, aggravato la sua posizione, facendo scambiare la leggibilità delle sue storie per facilità, e il montaggio quasi visivo delle sue trame per trucchi da mestierante. Si tratta di giudizi ingenerosi e basta fare un paragone con uno scrittore a lui contemporaneo e a lui spesso accomunato, Eric Ambler, l'autore del fortunato Topkapi, per rendersene conto. Anche Ambler ha per protagonisti eroi disillusi, anche Ambler utilizza colpi di scena e tecnica cinematografica per dare ritmo alle sue trame. Ma in lui l'elemento di forza è la storia in sé, il suo sviluppo, mentre Greene è ossessionato dai personaggi, dalla loro interiorità. Ambler è uno scrittore d'azione e di atmosfere, laddove l'altro è sempre e comunque uno scrittore di psicologie. Ciò che nei romanzi del primo rimane è l'intreccio, mentre in quelli del secondo a prevalere sono i caratteri. Noi non ricordiamo Una pistola in vendita, Il nostro agente all'Avana, Il nocciolo della questione, Un americano tranquillo, per la storia che li riguarda, un killer dal labbro leporino, un finto agente segreto, un traditore per nobili motivi, un giornalista cinico e innamorato, ma proprio per ciò che essi impersonano, le loro illusioni e le loro delusioni, le loro crisi di coscienza, la capacità e/o l'impossibilità di riscattarsi. Ambler è un bravo scrittore, ma Greene è qualcosa di più, è uno che ti pone dei problemi, che ti obbliga a riflettere su ciò che hai letto.

Anni fa, Bernardo Valli, che è un po' il principe senza eredi degli inviati speciali italiani, avanzò un parallelo interessante fra Hemingway e Greene. È un parallelo che ha molto a che fare con la professione giornalistica, e non per niente entrambi i romanzieri esordirono come reporter, furono corrispondenti di guerra e Greene arrivò persino a essere vice-direttore del Times... Secondo Valli, fra gli anni Cinquanta e i Sessanta, per molti dei suoi colleghi Greene fu un dio, ciò che in fondo sarebbero voluti essere. Per la generazione precedente, il dio era stato Hemingway, «del quale piaceva, affascinava l'attitudine aperta, generosa, l'impegno pratico, la limpidezza dello sguardo», un fascino che però era andato in seguito appassendo perché nei suoi libri e nella sua vita c'era anche una sorta di turismo cruento, di vitalismo esasperato e spesso compiaciuto, comunque fine a sé stesso. L'oscurarsi di quella divinità, aggiungiamo noi, era anche legato al fatto che il mondo sorto dopo la Seconda guerra mondiale era troppo confuso e contorto perché la semplicità hemingwayana potesse trovarvi posto. Non era più sufficiente, insomma, restare fedeli a sé stessi perché la vita non ti sporcasse comunque, e le implicazioni e le complicazioni della politica e dell'impegno rendevano quella fedeltà alla scrittura che Hemingway aveva rappresentato nell'Europa tra le due guerre, un qualcosa di difficile attuazione, perché troppe erano le contaminazioni, i dubbi, le alleanze di comodo, i compromessi. Sempre secondo Valli, molti fra quelli che per mestiere raccontavano il mondo e cercavano di mettere la propria penna al servizio di qualcosa, un partito, una fede politica, una certa idea della dignità umana, trovarono in Greene il nuovo dio da adorare proprio perché era pieno di dubbi, era anti-eroico, roso dai sensi di colpa. I suoi protagonisti «erano ambigui, incerti, in preda a sentimenti e passioni che rendevano difficili le scelte cui lui li sottoponeva. Non erano avventurosi e le avventure subite avevano come teatro i luoghi familiari dove prevale l'egoismo, insieme ad altri aspetti meschini, negativi della natura umana, quali l'indifferenza e la codardia. Nonostante la loro debolezza capitava che gli antieroi sapessero superare la prova e diventassero così eroi, rispettosi sino al sacrificio del valore essenziale pudicamente esaltato da Greene».

Rispetto alla semplice limpidezza dello sguardo di Hemingway, quello di Greene era opaco, nebbioso, perché opaco, nebbioso era del resto ciò che lo circondava: un mondo bipolare dove l'alleato della guerra precedente aveva posto sotto sequestro mezza Europa, a partire da quella Polonia per la cui libertà, si diceva, era cominciato quello stesso conflitto; il processo di decolonizzazione che si accompagnava alle infiltrazioni rivoluzionarie; l'accorgersi che un dittatore indigeno non era necessariamente meglio di un governo imposto dall'esterno, il difendere i diritti all'autodeterminazione dei popoli, ma il rendersi conto che, in nome della geopolitica, certi popoli potevano autodeterminarsi e altri no; il dover constatare che dietro un movimento di liberazione spesso e volentieri si celava l'ombra di un potente straniero di turno pronto a imprigionarli in altro modo...

Il fascino dei romanzi di Greene sta proprio in questo, nella complessità del mondo che racconta, che non è più un mondo in bianco e nero, i buoni da una parte, i cattivi dall'altra, nella complessità delle psicologie che lo animano, tutta gente che ha alle spalle almeno una cosa di cui vergognarsi: un amore tradito, una passione politica spenta, un senso di inutilità, l'aver mancato ai propri ideali.

Greene ci racconta per quello che siamo, dei condannati a morte che si comportano come se la loro vita non dovesse avere mai termine e che raramente accettano di vedere la realtà per quella che è, e ora si aggrappano a una donna, ora a una fede, in un dio, in una ideologia, ora buttano tutto a mare e ora si illudono, ancora e sempre di ricominciare... Non è cinico, l'occhio narrativo di Greene, è sofferto. Anche per questo è importante leggerlo.

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