Di opere di Daniele Galliano in giro per gallerie e aste non si trova quasi nulla, e io come al solito ci vorrei provare: mi piacerebbe scavare nel suo archivo, capire se posso comprare qualcosa, magari esemplari di certe sue vecchie serie per cui stravedo. Galliano, giorni fa, al telefono è stato gentile. Abbiamo parlato di un suo libro con testi di un comune amico e scrittore torinese, Enrico Remmert, poi dei libri che scrivo io (e gli ho promesso di portargliene un paio), poi del fatto che non c'è una galleria che lo rappresenti in esclusiva. «Tu vieni pure quando vuoi» mi ha detto, «sono sempre in studio». Poi d'improvviso il calore è svanito e, di fretta, mi ha congedato. Ora eccoci da lui a Torino. Il suo studio dà su un'ampia corte di appartamenti e magazzini, lo chiamo col cellulare: «dove ti troviamo?» Galliano risponde affacciandosi a un grande portello di metallo grigio.
Siamo in primavera, anche se le cose vanno meglio questo è ancora periodo pandemico, eppure a me e a mia moglie viene spontaneo levare la mascherina, stingergli la mano, stabilire un contatto. Galliano ha un anno più di me, è del 61. Ha i capelli ancora quasi tutti neri e una barba invece grigia. Anche i jeans sono grigi, e sopra porta una giacca a vento scura, chiusa fino al collo. «Qui dentro i volumi sono grandi» ci spiega «se accendessi le ventole del riscaldamento non riusciremmo più a sentirci. Lo vorreste un po' di vino?». Il contatto: ci sono persone che lo evocano, lo impongono come naturale, e sto parlando di un contatto che non sembra avvenire su una base semplicemente fisica, ma piuttosto carnale. Galliano è così. Sarà lo sguardo? Sarà il linguaggio del corpo? Saranno le vibrazioni? Eccole che arrivano, sintonizzate sulla stessa lunghezza d'onda di quelle di uno scrittore carnale come me, nato nei suoi stessi anni, passato attraverso il medesimo percorso di formazione dell'immaginario. O sarà quel che Galliano dipinge?
Va a prendere una bottiglia di là, nella zona laboratoriale disordinata, dove a cavalletto s'intravede un'enorme tela che brulica di uomini, inquadrati da un punto di vista alto e lontano. C'è anche un carrello carico di colori, solventi, pennelli, spatole, e accanto al muro una chitarra elettrica con amplificatore. Io e mia moglie restiamo nell'ambiente d'ingresso, dominato al centro da un lungo tavolo con bozzetti, cataloghi, fogli, cancelleria. Appoggiata a una parete c'è un'altra enorme tela in scala di grigi. Invece sul muro, in alto, è appeso un gruppo di tele piccole che somigliano a quelle di un polittico del 1993 intitolato Vietato ai lettori. Era un'opera fatta di dettagli X-rated oppure di volti in estasi, proprio come i pezzi che vedo qui: interpretazioni di foto prese da riviste, di fermo-immagine di video, o chissà, forse di scatti privati di Galliano, dipinte sui toni dell'azzurro, sfocate e febbrili. Faccio il periplo del tavolo. Dall'altra parte, sul pavimento sono posate quattro piccole tele. Queste sono a pieni colori ma di nuovo è la stessa cosa: sesso, abbandono, estasi. Galliano torna con una bottiglia di rosso. Facciamo un brindisi con ai nostri piedi uomini e donne nudi in azione. Il rosso non è male. L'imbarazzo è assente. Ci sono solo serenità e ottime vibrazioni.
Ma il mio imbarazzo invece arriva quando Galliano mi chiede se gli ho portato i libri e io, idiota, li ho dimenticati. Prometto, anzi giuro che glieli manderò per corriere appena tornato a Pavia, ma sui miei libri lui taglia corto. Ci parla, invece, delle affinità elettive, della relazione spirituale, quasi mistica, che esiste tra i libri e lui. «Ero in India, per la Biennale di Kochi Muziris» racconta, «e avevamo fatto acquisti. Al ritorno, all'aeroporto la valigia era fuori peso di molto. Va bene, pago per l'eccesso, ho proposto. Ma non avevo contante e la carta di credito agli imbarchi non si poteva usare. L'aereo era in partenza, il gate stava per chiudere. Allora ho aperto la valigia e ho preso a svuotarla, avrei lasciato lì il peso in eccesso. Via i vestiti, gli oggetti, le stoffe. Sotto c'erano i libri. Il primo era Psicomagia, di Jodorowski. Lo stavo leggendo nel viaggio d'andata, ho continuato a leggerlo mentre eravamo in India. L'addetto dell'aeroporto lo ha visto, ha guardato il frontespizio, mi ha fermato. I libri no, ha detto. Non ero ancora al peso giusto, ma lui ha guardato Jodorowsky e ha detto va bene così, i libri non si abbandonano, può richiudere la valigia».
Parliamo ancora delle sue letture, dei testi di Jodorowsky, di quelli di Castaneda. Poi quando la chiacchiera si smorza e cominciamo a guardarci negli occhi in silenzio, chiedo se posso scegliere un quadro da comprare. Ci porta di là, nel laboratorio. In fondo, appoggiate a una mensola, ci sono una decina di opere 20×30 e 40×50 appena dipinte, tutte magnifiche. Io, che ero partito con l'idea dei vecchi quadri, provo a chiedere se ne è rimasto qualcuno di una vecchia serie, quella di cui ha esposto un pezzo al Padiglione Italia della 53a Biennale: erano retri di case popolari sui toni dell'ocra, balconi con panni stesi, vecchie macchine parcheggiate, inquilini a torso nudo. «Non ne ho più» risponde. «Ho solo poche opere, nuove. Sono un pittore che vende tutto quello che dipinge, ci sono queste che vedi». Io e mia moglie ci mettiamo poco a scegliere, l'opera è questa, non c'è nessun dubbio: rossa e bianca, un convegno di cardinali nello stile classico di Galliano, con i dettagli che li distingui solo da lontano, perché quando ti avvicini la risoluzione crolla e la pittura sembra diventare astratta. «Ottima scelta» dice il pittore. «Il coefficiente è cinque». Ma per noi, qui, in studio, scende di qualcosa e lo prendiamo. Galliano lo firma e lo dedica a me e a mia moglie. E noi adesso vorremmo fermarci a bere ancora un po' di vino, dire, ascoltare, raccogliere aneddoti, interrogarlo su quadri, soggetti, storie, progetti. Invece accade tutto in fretta, come con la nostra telefonata: Galliano avvolge la tela in un tessuto plastificato, ci lascia i contatti per la fattura, e il tempo è scaduto. È come se la fretta lo stesse bruciando, ci sta congendando, appare evidente che noi adesso dobbiamo andare e lasciarlo solo. A raccontarlo così potrebbe sembrare un gesto scortese ma non lo è stato. Nel taxi che ci riporta in albergo io e mia moglie non ci sentiamo offesi ma in estasi.
È la soddisfazione dell'acquisto? La bellezza del quadro? O sono le vibrazioni carnali di Galliano che ci sono rimaste addosso? Saliamo in camera, appoggiamo il quadro su un divanetto, lo ammiriamo, poi senza aggiungere altro ci liberiamo dei vestiti e interpretiamo ferocemente le pose dei suoi quadri vietati.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.