
È difficile dire che cosa questo nome possa significare per un ventenne d'oggi. Se ha qualche passione e/o frequentazione musicale, forse riuscirà a risalire a quel Concert for Bangladesh che nell'agosto del 1971, mezzo secolo fa, più o meno, diede vita al primo live di beneficienza nella storia del rock, con l'inglese George Harrison, già nome mitico dei Beatles, e l'indiano Ravi Shankar, come organizzatori. Proprio nell'estate di quell'anno, in quel territorio apparso improvvisamente sulle prime pagine dei giornali e delle televisioni si stava consumando una repressione militare e una catastrofe civile. Il Bangladesh si chiamava allora Pakistan orientale, effetto della sciagurata partizione del 1947, quando il subcontinente indiano era stato diviso in due, l'India da una parte e il Pakistan, appunto, dall'altra. Bengala orientale si era chiamata fino ad allora quella regione e 2400 chilometri separavano Karachi, capitale del nuovo Stato pakistano, da Dacca, capitale di quello bengalese. In mezzo c'era in tutta la sua larghezza l'India e insomma quella provincia lontana si era ritrovata per motivi confessionali, ovvero religiosi, assegnata a una nazione con cui per specificità etniche, economiche, sociali, non aveva niente a che fare. Negli anni successivi, le istanze separatiste erano andate via via rafforzandosi e nel 1970, in occasione delle prime elezioni generali libere, la Lega Awami, capitanata dal suo leader Mujibur Rahman, aveva vinto e messo sul terreno la questione dell'indipendenza bengalese di fronte al governo centrale del Pakistan. Il presidente di quest'ultimo, Yahya Khan, aveva per tutta risposta dichiarato nulle le elezioni, fatto arrestare Rahman e invaso la provincia ribelle. Operazione Searchlight era stata chiamata quell'invasione, con intellettuali e hindu quali bersagli principali. Nel giro di pochi mesi, i ribelli avevano dato vita al Governo provvisorio del Bangladesh, con sede a Calcutta, un milione di morti, circa 10 milioni di profughi, la minaccia rivelatasi concreta di una carestia, il risultato della ribellione e della repressione, e di colpo il Bangladesh si era trasformato in una catastrofe umanitaria e in un delicato problema politico.
Nel guardarsi intorno in cerca di un aiuto occidentale il neo-governo bengalese si era infatti ritrovato di fronte a un muro di silenzio diplomatico. Gli Usa erano impelagati nel Vietnam, una guerra cominciata tre anni prima e da cui non sapevano più come uscire. Il Pakistan era comunque un loro alleato e il presidente Nixon, tramite il suo Consigliere alla sicurezza di Stato Kissinger, vedeva l'India, fresca di un accordo economico-militare con l'Urss proprio in ottica antipakistana, come il fumo negli occhi. «Abbiamo ricoperto di saliva quella vecchia strega» aveva detto il primo al secondo, quando Indira Gandhi era stata invitata alla Casa Bianca per saggiarne le intenzioni. «Gli indiani sono comunque dei bastardi» era stata la risposta del secondo «Bisogna essere machiavellici» aveva poi fatto sapere quest'ultimo all'ambasciatore americano a Nuova Delhi, preoccupato dal fatto che nel Bangladesh l'esercito pakistano usasse armi e attrezzature americane per soffocare la ribellione. «È una pulizia etnica» aveva però protestato il console americano a Dacca: «È un vero e proprio genocidio che abbiamo il dovere morale di condannare».
In un contesto del genere, con gli inglesi legati a filo doppio alla politica americana e i tedeschi condannati a un'eterna passività internazionale, l'ambasciatore indiano a Parigi pensò di organizzare, attraverso la Gandhi Peace Foundation, una conferenza internazionale sul tema e di invitare, a nome del suo presidente Narayan, André Malraux, allora settantenne, già ministro della cultura negli anni Sessanta, scrittore famoso anche se dalla gloria un po' usurata, nonché, come gli scrisse, uomo profondamente «legato alla causa della libertà e dell'umanità».
La risposta di Malraux a Narayan fu sorprendente. Non è tempo, gli rispose, né di circolari, né di petizioni, né di Nazioni Unite, tutte iniziative inutili: «Il Bengala deve fare appello alla propria fermezza. Non si tratta più di cose decorative ma di Forse moriremo, ma non saremo vinti. Su questa affermazione, non su un'altra, troverete l'aiuto che vi attendete. Se organizzerà la guerriglia, il Pakistan sarà battuto. Anche gli Stati Uniti non hanno schiacciato il Vietnam Ecco come la penso. Mi piacerebbe sapere che cosa ne pensate voi. Posso incontrarvi in India, anche senza conferenza internazionale, ne vale la pena e sicuramente potremo fare insieme cose più efficaci delle conferenze. Inoltre, non sarebbe stato a un congresso che avrei incontrato i capi della resistenza e avrei un grande bisogno di conoscerli». A stretto giro di posta, Malraux scrisse poi all'ambasciatore indiano facendogli sapere che intendeva recarsi sul posto, metter su una scuola di guerra, reclutare volontari, stabilire legami con gli insorti, cercare appoggi nel terzo mondo, organizzare una «grande marcia della libertà». In sostanza, che si metteva a disposizione, se non a capo, della resistenza del Bangladesh!
A distanza di mezzo secolo da quei fatti, Malraux et le Bangladesh ( a cura di Michaël de Saint Cheron, Gallimard, 180 pagine, 18 euro) mette insieme tutti i documenti di questa incredibile vicenda, compreso l'Appello pubblico da lui pronunciato in cui si dichiarava pronto a prendere il comando di una brigata internazionale e la lettera, pubblicata in forma di articolo, indirizzata al presidente Nixon quando quest'ultimo aveva ribadito il suo rapporto di alleanza con il Pakistan: «Vorrei che per il Bengala libero non dobbiate attendere vent'anni prima di ricordarvi che non è conveniente per il Paese della Dichiarazione d'indipendenza schiacciare la miseria di chi sta lottando per la propria. Conosco un poco il vostro Paese. Non ama affatto che si mandino in prigione i vincitori delle elezioni (e nemmeno i vinti) Non ama affatto che i suoi alleati spazzino via, verso un Paese vicino e povero, milioni di rifugiati. La carità non c'entra nulla: si può fare elemosina ai cadaveri».
Poco importa sapere se Malraux sarebbe veramente andato in Bangladesh. Nel dicembre di quel 1971 l'esercito indiano alla fine lo tolse d'impaccio assediando Dacca a fianco delle truppe bengalesi, provocando la caduta del governo pakistano di Yahya Khan e di conseguenza l'indipendenza. Due anni dopo Malraux sarà ricevuto in Bangladesh, in un impressionante bagno di folla accorta a ringraziarlo, e come se si trattasse di un capo di Stato, un viaggio trionfale che era la risposta più evidente a chi lo aveva tacciato di mitomania, calcolo, pericolosa senilità. La gente del Bangladesh gli riconosceva, insomma, che nel momento del bisogno a loro fianco c'era stato lui, e non altri.
Poco importa anche che del Bangladesh Malraux sapesse poco o niente. Per lui non era altro che una parte significante il tutto di un'India da lui sentita come l'irrazionale allo stato puro, Gandhi e Siddartha, le grotte sacre di Ajanta, Ellora, Elephanta, l'India come eterno giardino incantato del mondo.
È interessante invece ricordare la deposizione che lo stesso Malraux fece al processo contro Jean Kai, uno dei francesi allora sedotti dal suo appello, al punto tale da sequestrare, all'aeroporto di Orly, un areo delle Pakistan Airlines e chiedere in cambio venti tonnellate di medicinali per il Bangladesh. «Per l'accusato si parla di pirateria. - disse in quell'occasione - Se i pirati non avessero fatto altro che rubare medicinali sui galeoni del re di Spagna, oggi si parlerebbe di loro come di un ordine religioso. In atti del genere c'è un misto di grande generosità e di piccola follia... Ora, le tonnellate di medicinai ottenute da Jean Kay sono arrivaste a destinazione, hanno significato 600mila vita salvate.
E questo è quello che conta. L'uomo che voi state per giudicare merita molto più di me i fiori con i colori di Francia che ho ricevuto dai mutilati del Bengala». Kai verrà condannato a cinque anni e subito dopo messo in libertà.
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