Quando il vecchio d'Annunzio chiedeva motoscafi e aerei

Dal rifugio del Vittoriale «il Comandante» scriveva all'imprenditore Cella per avere un bombardiere S55

Quando il vecchio d'Annunzio chiedeva motoscafi e aerei

Dopo aver cambiato la storia della letteratura, dopo aver fatto la Storia, Gabriele d'Annunzio s'inabissa dentro se stesso, nello scintillio della leggenda. Ha poco meno di sessant'anni il poeta, da ora «Il Comandante», quando, perduta Fiume, si ritira a Gardone Riviera. Il Vittoriale, amato metodicamente, con il suo arredo vizioso, ossessivo, in fondo è la mente del poeta l'epica del poeta che immagina se stesso. Secondo la vulgata, gli anni del Vittoriale, dal 1921 fino alla morte di D'Annunzio, nel 1938, sono quelli dell'inesorabile decrepitezza del poeta, allontanato dalla vita viva, spiato, adornato da onori marcescenti. Nella recente biografia dannunziana pubblicata in Francia, D'Annunzio le Magnifique (Grasset, 2018), Maurizio Serra dedica più di un centinaio di pagine a «L'Agonisant», al poeta recluso nello sfarzo della sue fantasie, riscattando gli anni del Vittoriale.

In realtà, pur avendo perso la partita con la Storia, D'Annunzio resta invitto. Al Vittoriale ci si avvicina, con devozione, per contattare «il mito». Il 25 maggio 1925 Mussolini fa la prima di quattro visite al poeta nella sua dimora; nel 1922 un giovane Drieu La Rochelle, insieme a Maurice Martin du Gard, ascende al Vittoriale, con «la paura di essere sorpreso in flagrante delitto d'esaltazione davanti all'uomo che avrebbe voluto essere». La fama del poeta non teme ammaccature. D'Annunzio si accinge a marmorizzare la sua opera: nel 1926 viene costituito l'Istituto per l'edizione dell'Opera omnia. In quel contesto, mentre lo stile si avvia a decrittare i canyon della psiche al Notturno segue la scrittura del Libro segreto D'Annunzio lotta contro la Chiesa, fa a boxe con Dio. Dal 1928 i vertici vaticani tentano di osteggiare la pubblicazione delle opere di D'Annunzio («I gravi difetti che esse hanno dal punto di vista della morale cattolica non giustificano una solenne pubblicazione promossa dal governo nazionale»). Senza successo. Ad ogni modo, tra il 1928 e il 1935 le opere di D'Annunzio vengono installate nell'Index librorum prohibitorum. «Il Comandante», francamente, con una punta di cristiana tristezza, se ne frega. Vincere la vecchiaia sulla velocità.

Una testimonianza della fenomenale gagliardia dell'ultimo D'Annunzio proviene da un mannello di lettere inedite, proprietà di un collezionista, inviate dal poeta all'industriale Gian Riccardo Cella, suo «patrono» e mecenate. Gian Riccardo Cella, piemontese, era azionista della Isotta Fraschini, azienda produttrice di automobili di lusso una l'ha posseduta pure D'Annunzio e di motori per aerei e motoscafi. Mentre D'Annunzio era già cocktail per vermi, Cella fu protagonista di uno degli eventi capitali della Seconda guerra. Dopo aver acquistato, alla fine del 1944, Il Popolo d'Italia da Mussolini (con soldi «alleati»), Cella è il mediatore dell'incontro che si tiene, il 25 aprile del 1945, presso l'arcivescovado di Milano, tra il Duce, il cardinal Ildefonso Schuster e membri della Resistenza, per trattare la resa. A Cella, vent'anni prima la prima lettera è griffata «il Vittoriale, 29 aprile 1925» D'Annunzio chiede, con enfasi consueta («Mio caro Consolatore, nella Sua fraterna generosità...»), di avere un S55, un bombardiere-ricognitore in uso in quegli anni presso la Regia Aeronautica. E che se ne fa? Ovvio. Un «lungo volo oceanico». «Il mio patrocinio sedentario (o vergogna!) e la mia cooperazione aerea si fondano sopra una volontà ferma di eseguire il volo con motori di struttura italiana». Vecchio di gloria, sfrenato, l'ormai più che sessantenne D'Annunzio vuole vincere l'oceano. In qualche modo, i sogni del Vate si avverano. Nel dicembre del 1928 D'Annunzio, proprio con Gian Riccardo Cella (segno di una certa amicizia tra i due) è a Washington D.C., presso l'International Civil Aeronautics Conference, per un'orazione su «Isotta Fraschini's contribution to Italian aviation». Il Vate, va da sé, è onorato come un personaggio da romanzo, l'alfiere dell'impossibile, malinconico residuo di un'era eroica, abortita. Le altre lettere, in calligrafia ampia, fiorita, censiscono una nuova impresa di D'Annunzio, l'ennesima. Non essendoci più un «terreno di guerra», resta lo sport, la gara, a misurare le forze del poeta. Un record in velocità sul lago di Como, su motoscafo, ad esempio. «Sarò fiero di comandare, nella gara comasca, la velocissima imbarcazione» scrive il Vate. Che poi fa qualche appunto geniale creatore di slogan sul nome dell'imbarcazione da capitanare. «Non comprendo perché il battesimo sia dato col nome indefinito Alba. Qualcuno mi dice che Alba sia il nome d'una vostra creatura diletta. È vero? Cerco per lei una bamboletta profumata. Io che ora comando idealmente la non vendicata Puglia, e che ho una meta silenziosamente ma irresistibilmente prefissa vorrei chiamare il motoscafo Amarissimo, se bene la gara sia in acqua lacustre, oppure Serenissima... oppure Ariel che è il mio nome d'intimità lirica e fatale».

Probabilmente, non tutto va giusto. In una lettera seguente 10 maggio 1927 per sconfiggere il ricordo «di quel lontano ottobre della delusione», il Vate impetra «il nuovo guscio velocissimo» e invoca «la nostra iddia Rapidità che un tempo esaudiva il mio inno». D'Annunzio punteggia la sua vita di anniversari. Spesso fa riferimento alla Beffa di Buccari; celebra la Marcia di Ronchi. Il suo cuore è a Fiume, l'episodio che ha fatto tremare le radici delle «plutocrazie» europee. Le lettere sono sigillate con i tanti «motti» dannunziani, vergati dal geniale Adolfo De Carolis. «Memento Audere Semper», con il braccio che emerge dal mare stringendo una corona di rami di quercia; «Ti Con Nu, Nu Con Ti», il motto della Squadra San Marco, con l'Evangelista che svolazza in oceano di luce; «Sufficit Animus», icona della Prima Squadriglia navale, con lo sperone di nave sostenuto da ali d'aquila. Tutto si riferisce a un mondo bellico risolto nel ricordo. Eppure. Nell'ultima lettera al facoltoso Cella, D'Annunzio rilancia.

Si impunta nel «mio proposito di acquisire il primato della velocità acquatica». «Ho rotta la mia prigione» scrive, con innocente veemenza, «il Comandante». «Ormai corro tutte le vie e disegno tutte le scie». Allo sprint, D'Annunzio, il primatista, vince l'oblio, mette all'angolo la morte.

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