On the Road di Jack Kerouac ha significato troppe cose, per milioni di giovani di diverse generazioni, e per me in particolare, per poter stare in modo soddisfacente dentro due ore di film. È il romanzo di formazione di un giovane scrittore, letto da me quando anche il mio romanzo di formazione - quello non scritto se non dentro l'anima - cominciava a fare capolino tra le nebbie non ancora dissipate della preadolescenza. Ma è anche qualcosa, molto di più.
Avevo quattordici anni quando lessi Sulla strada. Da scolaro diligente, lessi prima di tutto la prefazione, opera di colei che per me e altri sarebbe diventata (in parte senza vero merito) una specie di sacerdotessa: Fernanda Pivano.
Ma il libro era troppo scabroso per essere letto davanti ai miei genitori, che erano lettori sensibili ed esigenti: tutto quel sesso, tutte quelle parolacce, ma soprattutto quel modello di vita così contrario a tutti i buoni principi che un papà e una mamma della provincia italiana all'inizio degli anni Settanta potevano trasmettere ai propri figli - tutto questo consigliava al giovane lettore di prendere qualche precauzione.
Sulla strada fu l'unico libro che nascosi tra la rete e il materasso del mio letto per evitare che qualche adulto di casa potesse cominciare a sfogliarlo. Fu il primo libro mio-mio, l'inaugurazione, il taglio del nastro di un'epoca nella quale mi sarei impegnato allo spasimo (questo lo sapevo già) per affermare la differenza tra «me» e non solo la mia famiglia ma il resto del mondo. Io ero, volevo essere una cosa speciale.
A quel tempo avevo anche cominciato a suonare la chitarra in un gruppetto rock con alcuni miei coetanei. Non suonammo mai nessuna canzone dei Doors, che piacevano solo a me, però quando ascoltai Riders on the Storm io l'associai immediatamente e per sempre a On the Road. Libro e canzone, scritti a molti anni di distanza l'uno dall'altra (l'età di Kerouac è quella di Charlie Parker, del be-bop), avevano una grande cosa in comune: il senso del mistero.
On the Road m'insegnò che la Beat generation era sorta ben prima dei Beatles, che il suo racconto apparteneva a un mondo diverso da quello, urbano e industriale, nel quale ero cresciuto io, e nel quale erano cresciuti i musicisti che amavo. La beat generation non aveva nulla a che fare nemmeno col Sessantotto, con lo spontaneismo alla moda in quegli anni, con i movimenti americani come gli hippies. Anche la New York che sarebbe divenuta il mito ossessivo delle generazioni successive, fino a oggi, nel romanzo di Kerouac (e, a dire il vero, un po' anche nel film di Walter Salles che esce oggi nelle sale italiane) è come un'apparizione che si materializza dal fondo della campagna: inusuale.
Così inusuale che gli eredi di quella storia non esistono più, e quelli che dicono di esserlo (pochi) sono, più che dei ruderi (un rudere è pur sempre stato una cosa nuova) delle caricature di qualcosa che non è mai esistito.
Per me On the Road, prima di essere il romanzo di formazione di uno scrittore, fu soprattutto una grande introduzione all'esperienza religiosa. On the Road insegnò a un ragazzino che non voleva più andare a Messa che la religione non è questione di preti e suore ma riguarda quel «di più» per cui la vita non ci basta mai, nulla ci soddisfa veramente, e nessun oggetto del desiderio risponde davvero alla domanda che ci urge, e della quale spesso ci vergogniamo. Grazie a On the Road non ho mai creduto nel successo, e nemmeno nei soldi e nel potere. In compenso, ho imparato a credere nella musica, nella poesia e nel mistero della bellezza.
Il film di Walter Salles tratto dal libro di Jack Kerouac è troppo poco rispetto tutto questo. La figura dell'io narrante, Sal Paradiso, è troppo schiacciata sul modello degli aspiranti scrittori che affollano tanti e tanti film dei nostri giorni, mentre il protagonista Dean Moriarty (che per me rimane una figura di santo) pur amata dal regista e dall'attore Garrett Hedlund, rimane troppo episodica per poter comunicare la profondità del personaggio letterario.
Anche il paesaggio americano, ben fotografato ma anch'esso troppo frequentato dagli obiettivi americani (specialmente in digitale un po' di Midwest non si nega a nessuno), non dà molte emozioni, tranne forse quando il gruppo attraversa nella nebbia il Golden Gate sul celebre ponte.
Restano i musi, le prore delle splendide automobili americane dell'epoca (a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta, che restano ad ogni buon conto non solo le più belle automobili mai fabbricate, ma anche (in assenza di altro) un'ottima ragione di sopravvivenza del cinema in generale.
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