Sono sempre stato piuttosto fiero della parte adolescente del mio carattere, della parte se vogliamo stupida di me, o incosciente, che mi ha procurato alcuni giudizi severi ma mi ha anche permesso di risolvere diversi momenti di vera difficoltà. Passavano gli anni, gli anta si susseguivano e io continuavo a sentirmi giovane, ma adesso che ne ho sessantacinque mi rendo conto che non è più così, e da un bel pezzo.
Non tanto perché il mio corpo ha perduto pressoché tutti i caratteri di un corpo giovane, e nemmeno perché senza dubbio le mie facoltà intellettuali si sono un po' rallentate, il mio i.q. si è abbassato e la perduta agilità della mente è stata sostituita, come diceva Nietzsche, da una migliore intelligenza della mano.
No. Io non sono più giovane perché mi rendo conto che le mie giornate non sono come quelle di un giovane, perché mi alzo dal letto in modo differente, perché il sole o le nuvole mi raccontano altre storie, perché amo il rock suonato con chitarre distorte, perché leggo troppi libri e perché il passato mi rincorre, mio malgrado. La mia testa è piena di pensieri pregiudizi argomentazioni del passato con cui io lotto ogni giorno, uscendone spesso sconfitto.
Non sono più giovane perché oggi sento la gioventù come un enigma che mi interroga. Parliamo di generazioni digitali, ma il punto non è quello. Sono persuaso che un sessantenne, oggi, usa i social e i dispositivi connessi quanto un tredicenne e sicuramente più di un diciottenne. Da anni insegno all'università, e lo faccio per poter ascoltare la voce, il desiderio, le illusioni e il pensiero di persone di diciannove, vent'anni alle prese con piani di studi stabiliti da sessantenni come me, per cercare di capire - se ne sono capace - cosa cercano di difendere e cosa sono disposti a perdere facendo il loro ingresso in una vita adulta che prima o poi dovranno rimodellarsi da soli perché il modello che noi stiamo offrendo loro non racconta più nulla alle loro orecchie.
Non posso dire che Greta Thunberg sia simpatica, e so (immagino) che dietro il suo movimento esistono interessi e movimenti di denaro enormi, eppure nel suo caso non riesco a interessarmi di quello che sta dietro, perché trovo molto più interessante quello che sta davanti, ossia centinaia di migliaia di ragazzi animati da una domanda che, per quanto (immagino) in parte pilotata, risulta centrale per le loro esistenze e per le loro aspettative sulla propria vita.
Tra quei ragazzi ci saranno di certo diversi figli di papà, ma ci sono anche ragazzi poveri, figli della working class, nipotini di comunisti che consideravano la questione ecologica come un esempio della malafede dei padroni («prima tagliano le foreste e poi piangono»). La loro non è una battaglia civile, non combattono per i diritti umani. Non sono certo che abbiano tutti a cuore le sorti degli immigrati siriani e afghani. Il loro problema non mi sembra questo. E se c'è qualcuno che li usa per i propri scopi (è sempre successo, mi stupirei se così non fosse), sono certo che questo qualcuno diventerà presto per quasi tutti loro soltanto un problema in più.
Un ragazzo di vent'anni mi ha consigliato di leggere Gli immortali di Alberto Giuliani (ilSaggiatore, pagg. 208, euro 19). Giuliani è un fotografo di una ventina d'anni più giovane di me, e il suo libro - molto interessante - è la storia di un uomo diverso da me, mosso dalle mie stesse domande ma che ha un'idea differente dalla mia riguardo al mondo in cui la nostra comune ricerca si svolge. Il mondo per lui - e per altri che incontriamo nelle pagine di questo suo memoir - è un luogo precario, fragile come il vetro, un posto dove è difficile costruire qualcosa di solido. Parla di viaggi su Marte e di persone non pazze, non stupide, che vogliono andare a vivere su Marte perché questa Terra non li interessa più.
Dopo averlo letto, apro la finestra del mio studio, guardo il cielo azzurro e il sole che splende e mi domando: dove sta l'inganno? Perché qualcuno non è contento del cielo, del sole? O sono io che mi sto ingannando?
La ricerca della felicità c'è in loro come in me, naturalmente, ma è come se per trovarla occorresse, prima, costruire altri mondi, e trasferirsi in essi. Da tempo mi dicevo: se trovassi un ragazzo di genio che abbia realizzato, anche per poco, questo progetto, forse potrei capire qualcosa di più. Avvicinarmi a una specie di cifra, di codice, toccare la chiave capace di aprire una porta che io non varcherò, ma che esiste - mi basterebbe questo.
Poi, per caso, ho trovato questo genio. È un musicista inglese, si chiama Jacob Collier, ha ventisette anni ma è da almeno dieci anni che stupisce il mondo, prima su YouTube e poi con i suoi album, attraversando tutti i generi musicali, suonando tutti gli strumenti, con brani indifferentemente suoi o altrui ma che lui reinventa da capo, come se lui solo capisse davvero ciò che altri hanno realizzato. Grandi musicisti (Stevie Wonder, Quincy Jones, Pat Metheny, Herbie Hancock) si inchinano davanti a lui.
Io lo ascolto, stupefatto, guardo ammirato i suoi video, faccio fatica a credere ai miei occhi, alle mie orecchie. Definirlo musicista, artista, è riduttivo. È Mozart ma anche Newton, e la sua vaga somiglianza fisica con il giovane Keanu Reeves lo riporta al protagonista di Matrix, Thomas Anderson detto Neo. Neo è l'eletto, colui che vede il mondo in cui vive (ossia Matrix) così com'è: non case, strade, alberi, bistecche come tutti pensano ma soltanto un'infinita cascata di codici numerici. Ecco, Jacob Collier - che aveva cinque anni quando uscì il film - sembra guardare la musica (e forse molte altre cose) allo stesso modo.
Ma se a vedere il mondo a quel modo fossi io, quali alternative avrei davanti a me? O il business cinico, o una specie di missione universale (come fa Neo). O, ancora: il suicidio.
Invece Jacob Collier crea un universo parallelo fatto di suoni e di immagini; non rinuncia ad esplorare l'universo, ma lo fa dal cuore della sua stanza. La sua stanza e l'universo coincidono in una dimensione che non è di solitudine o di egotismo: Collier trasferisce la sua stanza in mille altri luoghi, incontra altri musicisti, fa progetti con il Mit, moltiplica le collaborazioni, tiene concerti, mostra stima e gratitudine verso tutti. La stanza è la metafora dell'universo che esplode a partire da quel punto infinitesimale, da quel centro irraggiungibile che lui occupa, dal cuore segreto della Musica (ma anche della Matematica) dove lui abita.
Molti anni fa conobbi un monaco trappista che, dopo quasi trent'anni trascorsi in un monastero isolato, aveva dovuto lasciare la sua vita per gravi motivi di salute (sarebbe morto di lì a meno di un anno). Ricordo il suo racconto di una vita passata nel silenzio, le veglie per il mattutino, la preghiera in cella, mentre spuntava la prima luce. Nessuno mi ha mai parlato dell'alba come lui, nell'unica occasione in cui potei parlare con lui.
Il senso di questo ricordo è un invito. Usciamo per favore dalle solite griglie sociologiche, almeno per una volta. Qualcosa di autistico - no, no, qualcosa di monastico, un bisogno di dedizione totale anima, così a me sembra, molti ragazzi di questo tempo. Non voglio dire a cosa, forse a qualsiasi cosa, spesso casuale, finanche al crimine. Ma dedizione. Amano stare insieme, esprimere i loro affetti; durante il lockdown sono sicuramente quelli che hanno sofferto di più. Ma la realizzazione di sé è solitaria, segreta, cerca una stanza, una cella, perfino lo stordimento chiama il silenzio.
La mia è una generazione politica, pubblica, chiacchierona, che sulla terra ci sta bene.
Da queste parti i temi dell'inquinamento e del surriscaldamento globale interessano perlopiù a livello culturale (l'ideologia green).Ma c'è anche chi comincia a sentirsi estraneo, quaggiù. Forse qualcuno di loro, più fortunato, andrà su Marte. Ma ai più tocca un'equivoca, disperata, perlopiù silenziosa protesta.
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