Simoni indaga nell'abbazia degli inganni E intanto ci regala una grande scrittura

Il nuovo capitolo della saga medievale si rivela un romanzo di alta qualità

Alessandro Gnocchi

Gennaio 1349. L'Apocalisse incombe su Ferrara. Nei boschi passano processioni blasfeme sulle tracce di una bestia satanica. In città, le bibliche rane sono crocifisse fin sulla porta della camera di Obizzo d'Este. Assieme a esse fogli di pergamena recanti una maledizione.

La peste nera è finita ma ha lasciato uno strascico di superstizione. Maynard de Rocheblanche, l'eroico cavaliere francese, è costretto a indagare. Chi alimenta il terrore? È solo l'ultimo mistero della trilogia del codice millenario firmata da Marcello Simoni, che giunge a conclusione con L'abbazia dei cento inganni (Newton Compton). L'incombere della catastrofe s'intreccia alle vicende e ai personaggi che i lettori di Simoni hanno conosciuto nei volumi precedenti. Tra Ferrara, Avignone e un dimenticato monastero francese si gioca una partita decisiva per il futuro della cristianità. Maynard deve difendere il segreto del Lapis Exilii, che potrebbe cambiare il corso della storia consegnando un potere immenso nelle mani di colui che volesse sfruttarlo a proprio vantaggio. Rimane poi da chiarire quale destino attenda Gualtiero, garzone del grande pittore Vitale de Equis presso l'abbazia di Pomposa. Una volta conclusi gli affreschi dovrà affrontare una volta per tutte il suo passato, legato alle casate che dominano su Mantova e Ferrara.

Dire di più non si può, senza rovinare il piacere della lettura di questo romanzo storico, subito premiato dalle classifiche. Spesso i bestseller sono questioni di buona o cattiva trama. La scrittura è considerata un accessorio: deve correre rapida, e tanto basta.

Non è questo il caso. Simoni infatti è abile nel congegnare un intreccio killer, specie in questo libro conclusivo che può raccogliere i frutti seminati nei precedenti. Ma ciò non va mai a scapito della scrittura. La sintassi è semplice e curata. Lo stile di Simoni è piuttosto fondato su un vocabolario d'una ampiezza totalmente sconosciuta a molti «autori». Da questo punto di vista, la caratteristica principale della saga è la precisione di Simoni, conseguenza diretta di un passato da archeologo, studioso del Medioevo e dell'abbazia di Pomposa in particolare. Quando Simoni descrive un affresco, una armatura, un quartiere della città lo fa col massimo della proprietà linguistica e storica. Il tutto restando italianissimo per scelte (protagonista è Ferrara) e modelli artistici (innanzi tutto Eco). Così questo libro va bene per tutti i palati perché è intrattenimento di alta qualità. E ognuno potrà apprezzarlo in base a ciò che chiede a un romanzo di questo tipo.

Ecco, qualcuno, schiavo delle mode, ritiene che i romanzi «adatti a tutti i palati» difettino necessariamente di qualità.

Impossibile non notare un dettaglio. I romanzi «artistici» amati dalle pagine culturali dei giornali e dai premi letterari sono prodotti tanto velleitari quanto inferiori alla apparente facilità dell'Abbazia dei cento inganni. In quest'ultimo la ricercatezza è reale, e tocca tutti gli aspetti del prodotto: trama avvincente, credibilità storica, personaggi ben tratteggiati, ambientazione insolita, scrittura mai banale. Tanto lavoro neppure si avverte. Merito di Simoni, uno scrittore vero. Quanto è evidente invece lo sforzo di certi scrittori che vogliono apparire artisti veri e più si sforzano meno ci riescono.

Purtroppo non basta scegliere un tema «profondo» e scrivere come se la sintassi fosse una convenzione borghese per essere grandi autori. Simoni, senza spocchia, dimostra coi fatti di appartenere a un'altra categoria rispetto a questi orecchianti.

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