Il capofamiglia, in casa Edgeworth, è il dispotico Duncan: autoritario, pieno di sé, impietoso con la docile moglie Ellen, sarcastico con le figlie Nance e Sibyl, tollerante (ma solo fino a un certo punto della storia...) con il nipote Grant e, più in generale, insopportabile con chiunque. Ogni sua frase è un ordine sgraziato, o una frecciata, e ad ogni parola proferita sembra di vederlo, col petto che si gonfia, tronfio del suo ruolo. Eppure, a mano a mano che l'orecchio si assesta sulla lunghezza d'onda dei dialoghi di Il capofamiglia (Fazi, pagg. 250, euro 19), è sempre più chiaro come non solo Duncan Edgeworth non sia un «capo», ma anche che chiamare la sua una «famiglia» sia un azzardo, un'ironia degna, per ferocia, di Ivy Compton-Burnett.
Pare che, fra i suoi venti romanzi, l'autrice inglese (1884-1969) amasse in particolare proprio Il capofamiglia (il secondo dei suoi titoli proposto da Fazi, dopo Più donne che uomini, pubblicato un anno fa): e bisogna dire che, quanto a essere un tiranno patetico, Duncan Edgeworth non ha da sentirsi inferiore quasi a nessuno. È così odioso da tormentare i suoi famigliari perfino la mattina di Natale, trasformando le colazioni dei giorni di festa in un incubo. Non a caso, una delle domestiche osserva con saggezza che il Natale «tende a presentare più problemi del solito, pur annunciandosi come un giorno senza problemi».
La «famiglia unita», si fa per dire, sotto lo sguardo giudicante di Duncan è una potenziale bomba destinata a esplodere senza scintille, a detonare nel grigiore degli sgarbi quotidiani, come quelli che si rivolgono il padre e la figlia Nance: «Mia cara ragazza, hai avuto ospiti tutto il pomeriggio. Possibile che tu non possa scambiare due parole coi tuoi familiari?». «Una parola di tanto in tanto la dico, Padre. Mi stupisce che tu non ci abbia fatto caso». E via così, di acidità in acidità, al punto che Duncan non riesce a mostrare compassione neppure il giorno in cui la moglie Ellen sta male, così male che morirà nella notte.
Al pasto successivo, il capofamiglia abbraccia figlie e nipote con parole di questo calore: «Bene, oggi abbiamo perso una persona molto cara a tutti noi», con il trasporto «di chi riepiloga un fatto prima di archiviarlo definitivamente».
Ivy Compton-Burnett è celebre per le sue famiglie conflittuali, dominate da piccoli o grandi dittatori (o dittatrici), sempre attraversate da una acidità linguistica talmente corrosiva che verrebbe voglia di trasformarla in un disinfettante, visto che di questi tempi è così difficile trovarne uno sugli scaffali del supermercato. I personaggi si rivolgono insulti senza rimorsi, certo insulti molto raffinati, niente a che vedere con quello che si sente normalmente; magari appena velati dall'ipocrisia dell'appena trascorsa età vittoriana, oppure ammantati di una presunta moralità.
Ma è la storia, in questo caso, a non lasciare scampo alle singole identità e alle loro (molto ipotetiche) virtù: Duncan infatti si risposa, per ben due volte, e la nascita di un figlioletto maschio scoperchia il vaso di Pandora della avidità latente tra i possibili eredi, con esiti inaspettati; oltre a rinfocolare i pettegolezzi del «buon vicinato», caustico tanto quanto la famiglia Edgeworth, solo un po' più bigotto...
Questo stesso spirito, fin troppo aggressivamente sincero, è l'arma (e insieme la dannazione) di Olive Kitteridge, l'ex insegnante in pensione di Crosby, nel Maine, protagonista del romanzo omonimo di Elizabeth Strout, con il quale la scrittrice americana (è nata nel Maine, come Olive, ma vive a New York da anni) ha vinto il Pulitzer nel 2009. Ora Olive, «quella vecchia ciabatta», come molti la definiscono in paese, è tornata in un nuovo romanzo a racconti, Olive, ancora lei (Einaudi, pagg. 268, euro 19,50): è sempre burbera, è sempre «troppo Olive» come le dice Jack, ex professore di Harvard, quando le chiede di sposarlo; eppure, quell'essere «troppo Olive» è anche il suo fascino. Proprio perché è «troppo Olive», è così chirurgica nell'individuare le debolezze, le meschinità, le malinconie e la bontà, perché a volte c'è anche quella, altrui, in quel micro-mondo che è Crosby. Il primo marito di Olive, Henry, è morto. Anche la moglie di Jack, Betsy, è morta. Entrambi soffrono: la prima volta, insieme, parlano per ore dei rispettivi coniugi perduti. Olive si innamora di Jack, «quello vero», Jack si innamora di Olive - all'inizio gli sembra incredibile, proprio Olive, per la quale tutto è una schifezza, perfino la prima classe in un volo intercontinentale - e si sposano. Perché? Così risponde Olive al figlio Christopher, indignato: «Perché siamo due vecchi soli e vogliamo stare insieme». Lo sguardo di Olive continua a trafiggere i suoi concittadini, gli anziani che, come lei, finiscono nella residenza «Gli Aceri», il figlio e la sua famiglia, gli ex alunni e alunne ormai cresciuti, le badanti...
Non fa sconti, ma non è senza pietà: Olive è ancora lei, eppure, forse per l'età, forse per le esperienze e i dolori che la toccano sempre più da vicino, riesce a rivolgere la sua arma anche verso sé stessa, a dissezionare la propria anima, la propria mancanza di sensibilità, il proprio essere così senza imbarazzo da finire sempre in situazioni imbarazzanti, il proprio rapporto con il figlio, la propria acidità da «vecchia ciabatta» che, anche in casa di riposo, vuole chiacchierare solo con chi le va a genio (pochissimi, si capisce). Lucidissima come un'oliva appena sgocciolata, e senza perfidia, perché Olive, in fondo, è buona anche lei.
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