Chi è stato Leo Longanesi? L'inventore del rotocalco, parola ormai misteriosa? Un brillante editore di libri e periodici? Più probabilmente oggi sarà identificato come uno scrittore di aforismi a misura di social network. Uomo sempre in contraddizione con i suoi tempi, fondatore del settimanale frondista Omnibus sotto il fascismo e del settimanale frondista Il Borghese sotto l'antifascismo, Longanesi non esibisce un pensiero sistematico (nel caso lo avrebbe deriso lui stesso) ma propone un pensiero profondo ed espresso in un italiano da fuoriclasse.
Il frammento era la misura perfetta per un provocatore nato, capace di trovare sempre il dettaglio incongruente, quello che strappa un sorriso (amaro) nello stesso istante in cui mostra il crollo del castello di carte chiamato Italia. Parliamo dell'elefante (1947), Ci salveranno le vecchie zie? (1953), i postumi La sua signora (1957) e Fa lo stesso (1996) sono libri, quasi sempre pubblicati per la propria casa editrice, la Longanesi appunto, tuttora necessari per capire l'Italia. Il tradimento della borghesia è uno dei temi esplorati con maggior costanza da Longanesi. La borghesia dell'Ottocento è stata una fonte di ricchezza e sviluppo per l'intera comunità. Oggi è tutta un'altra storia, fatta di avidità, volgarità e ignoranza: «Il capitale ha perduto forza: è soltanto un peso da difendere: non seleziona, non raffina. Chi possiede un miliardo, possiede novecentonovantanove milioni di più di chi ne possiede uno soltanto: una differenza di zeri, fra gente che vale zero».
L'eredità morale dei vecchi borghesi è andata persa: «I figli, i nipoti, i pronipoti di quei vecchi borghesi non chiedono di rimanere borghesi, non vogliono più esserlo, non vogliono più sembrarlo. Essi ripudiano la loro storia: la storia pesa loro, li annoia, li copre di polvere. La storia attira l'agente delle tasse; la storia impone dei doveri; la storia chiede anche di morire. E al borghese d'oggi, la sola cosa che sta a cuore è di vivere, di vivere coi quattrini, anche a costo di perderli a poco a poco, ma lentamente, dolcemente». A Longanesi non sfugge la oscena alleanza tutta italiana tra socialismo (statalismo) e capitalismo. Burocrati e (im)prenditori sono pronti a spogliare il Paese, cioè la classe media, di ogni ricchezza attraverso le tasse e i regali alla grande impresa.
In Italia, parlare di libero mercato rasenta il ridicolo. Scrive Longanesi: «È l'amicizia, è la confidenza che, in Italia, tesse le stoffe, fonde i metalli e stampa la latta; è l'unione di più influenze, il fascio di più amicizie, l'accordo di più interessi che crea quella forza che piega la legge, che corrompe i costumi, che spezza la concorrenza; è la pastetta, la sola, la vera, la grande capacità tecnica che domina il mercato». Di fronte a questo scenario, al saccheggio e allo spreco sistematico, Longanesi si chiede se non sia possibile fare a meno di questo Stato e come sia possibile difendersi. Ecco la risposta: «Ma oggi, oggi io vi dico, cittadini, che è giunta l'ora ella grande riscossa; io vi dico che non dobbiamo più pagare le tasse; se lo Stato spende, noi risparmieremo. A lui il marmo nero, a noi la carta straccia: e vedremo».
Longanesi non si illude sui benefici della democrazia. Finirà male.
Uscita vittoriosa dalla guerra perderà la pace, trasformandosi in una tecnocrazia: «Costretta ad affrontare ogni giorno problemi industriali e finanziari gravissimi, ubbidisce soltanto alla sua pratica economica; la difesa della libertà o dei diritti dell'Uomo, o quel che c'è d'altro, la preoccupano soltanto in astratto». Lo Stato, inteso come un'unità economico-finanziaria ormai autonoma, decide sopra le nostre teste. Ma il brutto, dice Longanesi, è che se il potere fosse realmente esercitato dalle masse sarebbe ancora peggio.
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