La sua voce dolce era il simbolo dell'amore tormentato

Allievo di Trenet, era l'opposto di Gainsbourg e tenne separati arte, impegno e politica

La sua voce dolce era il simbolo  dell'amore tormentato

Dal vivo, quando finiva di cantare, sempre elegantissimo, abbassava timidamente lo sguardo per non essere investito dagli applausi. E poi li lasciava correre fino alla fine perché, per chi ha pagato il biglietto, applaudire è un piacere e «se volete essere amati dal pubblico, dovete amare il pubblico». Monsieur Charles Aznavour lo ha fatto ininterrottamente per 75 anni, esordio nel 1933 nel ristorantino dei genitori in rue de la Huchette a Parigi, ultimo recital a Osaka due settimane fa a bordo di un repertorio selezionato tra 1200 canzoni e quasi trecento dischi. «Continuo la carriera perché gli altri sono già stanchi», mi aveva detto sorridente due anni fa prima di esibirsi all'Arena di Verona e sorridendo ha continuato fino alla fine. C'era qualcosa di affine nello sguardo e nella voce di questo signore elegante e minuto che fino all'ultimo ha coltivato i propri ulivi nella villa L'Aigo Claro di Aiguilles in Provenza: è la malinconia. Gli occhi neri erano velati da quella stessa tinta soffusa e pensierosa che ne esaltava la voce, la incupiva seguendo le parole e poi se ne andava per far entrare la luce. Non a caso, piacque subito a Édith Piaf che invece era impetuosa e tagliente e rimase affascinata dal piccolo Charles che a 22 anni, lui figlio di armeni fuggiti al massacro, aveva già il dolore nell'animo e la voglia forte, insopprimibile di cantare. Lo ha fatto in sette lingue e in tutte riusciva a essere personale, sincero, quasi che diventasse per qualche minuto italiano o americano o spagnolo fino in fondo. Però, come tutti i cantanti del suo tempo, non capiva perché «i giovani francesi vogliano far successo in inglese». Non nella lingua inglese ma «all'inglese», con uno stile distante da quello francese che, peraltro, ha contribuito a creare. Allievo ideale di Charles Trenet, distante da Gainsbourg, aveva l'indole dello «chansonnier» e non quella del «crooner» alla Sinatra «perché il crooner arriva, canta e se ne va». Invece Aznavoice (come lo chiamavano gli americani) rimaneva perché raccontava storie, le sue storie o quelle della gente intorno a lui, ed erano tutte storie profonde, di solito cupe. Non era un tipo da vivere sfrontatamente «alla mia maniera» (My way di Sinatra) ma un gentiluomo ispirato che raccontava di come ci si sente quando «si cercano parole, che nessuno dirà, si vorrebbe piangere e non si può più» (dal testo di Com'è triste Venezia, in francese Que c'est triste Venise). E nelle tonalità rotonde, molto garbate, estremamente convincenti nei bassi che ha conservato fino all'ultimo concerto, Charles Aznavour esibiva la propria scuola, quella fatta davvero nei localetti parigini di Montaparnasse mentre c'era l'occupazione nazista e De Gaulle era ancora all'Eliseo. Lì nacque l'«istrione» triste, che sapeva fare battute fulminanti («Berlusconi mi piace perché è matto e io ho sempre amato i matti») ma che è riuscito come pochi altri a spendersi per il proprio popolo, gli armeni, uno dei più trascurati della storia. Divenne ambasciatore, parlò e battagliò ovunque, circa vent'anni fa riunì persino una cinquantina di cantanti italiani per il brano Per te Armenia ma disse fino all'ultimo che «la diplomazia mi appartiene, la politica no». Era uno chansonnier, non un cantautore impegnato e la politica, si sa, è spesso «sangue e merda» come diceva un vecchio ministro italiano.

Perciò lasciò quasi sempre fuori dal proprio spartito il cosiddetto «impegno» e anche quando scrisse per primo dell'omosessualità (Comme ils disent, 1972) lo fece con il rispetto di chi non giudica, ma semplicemente sente. «La gente impara a conoscermi quando inizia a conoscere l'amore» disse una volta con quella voce elegante, pacatissima che aveva davvero il suono dell'amore come uno se lo immagina.

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