È vero. Mario Tobino (1910-91) non cominciò come scrittore della follia, alla quale - strega e amante - dedicò la sua vita letteraria e medica. La follia - «una malattia dell'intelletto, non del sentimento, che invece rimane integro», diceva - venne dopo, anche come materia narrativa. Il mare invece fu il primo personaggio della sua immaginazione.
E il mare, i ricordi di ragazzo quando giocava coi figli dei marinai nel Piazzone di Viareggio, le vele, il porto e i vicoli, le storie di barche, di equipaggi e di vento, sono tutte cose che tenne per sempre nelle tasche del suo camice.
Nato a Viareggio, città che pochi giorni fa, per i trent'anni dalla morte, era l'11 dicembre 1991, lo ha ricordato collocando nel punto di ingresso al molo una targa con incisa la sua poesia O Viareggio più bella dell'Oriente, un padre originario di Tellaro e un'infanzia ad ascoltare racconti che sanno di scialuppe e naufragi, Mario Tobino aveva il mare come destino. E mare fu.
Aveva vent'anni, era reduce dall'unica avventura marinaresca della sua vita - sulla Pia, insieme con altri dieci uomini di equipaggio, fa un viaggio di un mese, dal mar Ligure a Napoli, Sicilia, Sardegna, Corsica fino alle paurose Bocche di Bonifacio, durante il quale sente tante storie che lo incantano - e al ritorno prova a scriverne una sua. S'intitolava La gelosia del marinaio. Un racconto, riletto oggi, perfetto. Sono gli anni Trenta, e quel racconto il giovane Tobino lo manda alla rivista Il Selvaggio, a Mino Maccari. Glielo pubblicò.
Insieme ad altre storie di mare La gelosia del marinaio esce in volume nel 1942 da Tumminelli e poi nella raccolta L'angelo del Liponard pubblicata nel '51 da Vallecchi, casa editrice che oggi, all'interno di un piano editoriale che prevede la riedizione delle opere dello scrittore viareggino, riporta finalmente in libreria. Rieccoli qui, i racconti. Uno più limpido dell'altro, cristallini: tutti maschi, tutti marinareschi, tutti misteriosi: Inizio della vita di un marinaio, Il vecchio marinaio, Un marinaio straordinario e ancora I due marinai, o il ferocissimo Quelli di Viareggio
Se la mente umana che Tobino da medico indagò tutta la vita è un labirinto impercorribile, le storie che raccontò da scrittore sono viaggi lungo rotte inesplorate, precise, esaltanti. Senza inventare nulla, creò nuovi mondi.
Stile letterario personalissimo, sensibilità umana unica e aderenza al dato scientifico, Mario Tobino è un classico del nostro secondo Novecento. Ma con quale fatica lo è diventato... Ci furono le poesie, poi i racconti di mare, quindi i giorni e le storie di guerra in Libia, dopo arrivò la stagione della Resistenza, i quarant'anni di lavoro e di scrittura nei manicomi prima di Bologna, Ancona e Gorizia e infine a Lucca, a Maggiano - che nei suoi libri diventa Magliano - e persino i due massimi premi letterari italiani: nel 1962 lo Strega con Il clandestino e nel '72 il Campiello coi racconti Per le antiche scale.
Eppure tutto ciò non bastò a salvarlo, o bastò molto poco, di fronte alla stampa, alla pubblica opinione, alla critica e alla nostra meglio intellighenzia quando Tobino, scrittore e medico fino ad allora riconosciuto e stimato, divenne uno dei più battaglieri avversari della Legge 180 del maggio 1978. Quella che impose la chiusura dei manicomi.
«Mio zio si oppose alla dottrina di Franco Basaglia, con il quale, sembra un paradosso, era amico, e ciò gli costò molto perché in quegli anni il problema del disagio mentale e dei manicomi fu estremamente politicizzato», ricorda oggi Isabella Tobino, figlia del fratello Piero e presidente della Fondazione «Mario Tobino» che dal 2006 promuove l'opera dello scrittore e ha sede dentro l'ex ospedale psichiatrico di Maggiano. «Lo zio fu strumentalizzato contro la sua volontà, fu accusato di essere un conservatore, addirittura un reazionario Ma come?!, diceva, sono stato un partigiano, ho partecipato al movimento di liberazione, non sono mai stato un uomo di partito, e mi attaccano politicamente perché dico no alla chiusura dei manicomi?. E così fu emarginato dalla Sinistra dell'epoca...». La libera mente di Magliano.
E sì che Mario Tobino da studente, pur innamorato della letteratura, scelse la facoltà di Medicina per obbedire al padre farmacista che lo voleva più libero - professionalmente, economicamente intellettualmente - rispetto a Legge o Lettere... E invece.
E così fu medico. Poi l'orientamento verso la psichiatria - «Mi ero accorto di avere una certa disposizione a sentire i moti dell'animo altrui. Stavo attento a ciò che gli altri pensavano, tentavo istintivamente di andare al di là del loro silenzio», raccontò in un'intervista bellissima, dei primi anni Ottanta, che abbiamo trovato in una cartelletta strapiena di ritagli nell'archivio del Giornale. Da lì, la scelta di esercitare la professione nei manicomi fu una naturale conseguenza. E quello di Maggiano - Lucca, reparto femminile, dal dopoguerra alla legge Basaglia e oltre - una scelta. Nasce lì la trilogia della pazzia. Le libere donne di Magliano (1952), Per le antiche scale (1972) e Gli ultimi giorni di Magliano (1982).
Ed ecco la crudeltà, la tenerezza, le furie, e le ire, le luci e le ombre del mistero della condizione umana. È ciò che spinge Tobino, corporatura massiccia e sensibilità finissima, non solo a lavorare, come qualsiasi altro medico, ma a vivere dentro l'ospedale. Per 40 anni. Qui, in mezzo ai suoi matti - «Non si può comprendere, seguire, svelare la follia, se non si vive col malato» predicava - in due stanzette sei metri per quattro (che ci sono ancora, rimaste tali e quali le lasciò lui, «e visitate da molta gente, anche studenti», dice orgogliosa Isabella Tobino) scrisse i romanzi, i versi, i «diarucci», e ci mise la sua di anima. Quando ancora non esistevano gli psicofarmaci, che per Tobino aprirono le porte alla Basaglia: Tobino vedeva nella follia una tremenda manifestazione della vita che i farmaci annullavano. E quando la pazzia si presentava con la sua autentica personalità: «Ogni malato era diverso dall'altro come la gente che va per strada: la follia si manifestava con limpidità: nella sua assolutezza, nella sua forza, e anche nel suo fascino». Un fascino forse perverso, e che Tobino innegabilmente subì. Da qui la sua difesa del manicomio: «Una famiglia non può reggere un vero malato di mente. Io continuo a chiedermi, pensando alle migliaia di esseri umani che ho conosciuto e curato: chi li difenderà?». E la sua avversione alla Legge 180: «Bisognerebbe sapere quale è stato il numero dei morti dovuti a quella Legge. Ne sono morti a migliaia. Come si fa a dire che la colpa della follia è della società? Come si fa a dire che la malattia mentale non esiste?». Erano cose che all'epoca non si poteva dire.
E oggi? «Oggi - ammette la nipote dello scrittore che ascoltava i folli - la damnatio memoriae sembra superata, almeno un po', e si torna a leggerlo per il grande narratore che è e anche a rivalutarlo per il medico che fu.
Mario Tobino ha tanti nuovi lettori così come ci sono tanti psichiatri che mi confessano di aver intrapreso la loro strada professionale grazie alla lettura delle sue opere».Come i malati guariscono, a volte gli scrittori rinascono.
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