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"Le trappole del pensiero? Si aggirano solo insieme"

Ex consulente, ora è esperto dei "bias", i pregiudizi che rovinano le decisioni: "Sono sempre gli stessi"

«Sono stato un consulente manageriale per molti anni. E, fin dai primi incarichi, sono rimasto colpito dal fatto che a volte i miei clienti, che erano dei manager intelligenti, brillanti e qualificati, che dirigevano società importanti e avevano tanti soldi e grandi responsabilità, commettessero degli errori tremendi. Prendevano decisioni che perfino un giovane consulente alle prime armi, come me, si rendeva conto di quanto fossero stupide». È così che Olivier Sibony, per venticinque anni consulente in McKinsey, oggi docente all'Ecole des Hautes Etudes Commerciales di Parigi, si è messo a studiare il mondo dei bias, quei pregiudizi che ci portano a commettere errori; ne è diventato così esperto da scrivere il saggio Rumore (Utet, 2021) con il Nobel per l'economia Daniel Kahneman. Ora Sibony ha scritto una nuova guida, Stai per commettere un terribile errore! (Raffaello Cortina, pagg. 328, euro 24) in cui, oltre a descrivere i pericolosi bias, spiega anche come agire, ovvero «Come evitare le trappole del pensiero». Ne parlerà domani, sabato 18 settembre, a Pordenonelegge (ore 17,30).

Olivier Sibony, da quelle prime esperienze che cosa ha capito?

«Che quegli errori non avevano senso: si trattava sempre dello stesso genere di sbagli, che si ripetevano di volta in volta».

Che errori sono?

«L'aspetto più interessante è che tutti li fanno. E non sono i classici errori da cui impari e che, quindi, non commetti più: gli errori dovuti ai bias sono quelli che continuiamo a fare».

Uno tipico?

«Negli affari, la tendenza a pagare in eccesso per una acquisizione, perché si sovrastima il valore delle sinergie che potrà creare. È sempre così. Sistematicamente. Eppure, questo errore si ripete sempre. Perché i manager non imparano?».

Perché?

«Perché è un errore basato sui bias, e questo tipo di errore non è normale: da esso non possiamo imparare, perché è l'illustrazione di un modello che, drammaticamente, si ripete».

Nel libro fa l'esempio di quando, nel 2000, Blockbuster rifiutò un accordo con Netflix, allora una start-up: dieci anni dopo, la prima dichiarò bancarotta...

«È una vicenda unica ma, allo stesso tempo, identica a quanto successo a Blackberry e iPhone, Kodak e foto digitali, Air France e Alitalia da una parte e Ryan Air e Easy Jet dall'altra: è la storia della distruzione di una azienda da parte di una nuova tecnologia, e di quando si sottostima il nuovo arrivato».

Al posto di Blockbuster, penso avrei fatto lo stesso.

«Anch'io, sicuramente. In questo caso c'è una combinazione di quattro bias che portano alla cosiddetta sottostima della rottura. Il primo bias è l'eccesso di fiducia: Blockbuster pensava di essere una buona azienda, forte, ed è dura voler cambiare in questi casi».

Poi?

«Poi c'è il bias dello status quo: quando hai successo e il tuo modello di business funziona, perché intervenire? Inoltre, e qui subentra un terzo pregiudizio, quando si investe in un nuovo affare si rischia, e si perde qualcosa: ebbene, noi tendiamo sempre a immaginare la perdita come più grande di quella che è davvero».

L'ultimo?

«Il potere del pensiero di gruppo: se sei circondato da persone che rinforzano la tua idea, e non ti contraddicono o non ti sfidano, allora, anche se sei una grande azienda di successo, può essere che tu decida di agire quando è ormai troppo tardi. Ed è quello che è accaduto a tutte le società fallite a causa di una nuova tecnologia».

Però la fiducia e l'ottimismo sono meccanismi evolutivi fondamentali.

«Tutti i bias esistono per qualche ragione. Siamo ottimisti e abbiamo fiducia in noi stessi perché, nella maggior parte dei casi, è giusto, così come è giusto andare d'accordo con le persone che ci circondano. È quella che si chiama euristica, e che in generale funziona, è una cosa buona».

Quindi lo sono anche i bias?

«Esatto. Ed è per questo che è impossibile liberarcene, e non dovremmo neanche provarci, perché peggioreremmo soltanto la situazione. Sono proprio subdoli...».

E allora che cosa dovremmo fare?

«Dobbiamo cercare un modo per essere sicuri che la decisione che abbiamo preso non sia basata su pregiudizi. E questo è possibile grazie a due ingredienti: la collegialità e il processo. Collegialità significa un gruppo di persone che lavorano insieme, così che il bias di uno sia respinto dagli altri».

E il processo?

«È un metodo per arrivare a un accordo e prendere le decisioni».

E la famosa intuizione?

«È fantastica in certi casi ma, in altri, non è affidabile: sfortunatamente, non siamo bravi a distinguere le circostanze...».

C'è una regola?

«Possiamo fidarci dell'intuizione quando abbiamo a che fare con problemi già affrontati ripetutamente, in un ambiente prevedibile e poco mutevole. Ma una decisione strategica è, per definizione, poco usuale; quindi ricorrere all'intuizione, in questi casi, è una pessima idea. Il problema è che gli amministratori delegati, di solito, credono il contrario».

Il bias più pericoloso?

«Forse, quella forma di convinzione per cui, se sei un uomo di esperienza e di successo, credi che qualsiasi cosa tu abbia di fronte sia una replica di ciò che hai già visto. Un eccesso di fiducia, per cui credi di avere comunque la soluzione; il problema è che, di fronte a qualcosa di nuovo, lo sottostimi e applichi rimedi vecchi, che non funzionano. È come quando si dice che i generali combattono la guerra passata... Lo abbiamo visto durante la pandemia».

Quindi possiamo arginare i bias?

«Individualmente no: faremmo come il Barone di Münchhausen, quando cerca di salvarsi tirandosi per i capelli. Possiamo farlo collettivamente, come gruppi, squadre, organizzazioni.

Però servono dei leader capaci di riconoscere il valore del lavoro di gruppo e del processo che ne nasce, che non pensino che il loro giudizio sia il migliore, e che siano consapevoli dei limiti e dei pregiudizi che ci condizionano».

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