Cultura e Spettacoli

"Tutta l'umanità viaggia chiedendo un passaggio a degli sconosciuti"

In "Sempre tornare". lo scrittore scandaglia le ansie di un ragazzo. Fra dolore e ironia

Torino. Daniele Mencarelli è uno scrittore radicale. Chi aprirebbe un romanzo con una frase senza compromessi come: «Siamo figli del Tutto, o figli del Niente. Da una parte Dio, dall'altra il Caos»? A interrogarsi è Daniele, il protagonista diciasettenne del nuovo romanzo Sempre tornare (Mondadori), terzo di una trilogia al fondo autobiografica, che include anche Tutto chiede salvezza (Mondadori, 2020) e La casa degli sguardi (Mondadori, 2018). Non è forse una domanda, il senso della vita, che ci poniamo tutti quanti nel periodo in cui stiamo per diventare adulti? Poi arrivano le zone grigie, quelle che ci permettono di entrare e restare in società. Funzionali, ordinati, forse anche un po' irregimentati. Per un po' troviamo il significato dell'esistenza nel lavoro, nella famiglia, nelle nostre occupazioni. E va bene, però la domanda è sempre lì. Pronta a ripresentarsi nei momenti cruciali, con forza sempre maggiore mano a mano che il tempo a disposizione si accorcia. Se fosse uno scrittore borghese, Mencarelli avrebbe scritto un libro in cui si seziona, magari con ferocia, la personalità altrui senza mettere in mostra i propri nervi scoperti. Mencarelli è di un'altra pasta, rarissima. Il suo è un corpo a corpo tra arte e vita. Sia in poesia (Mencarelli nasce come poeta) sia in narrativa. Si avverte subito che questo autore racconterebbe cose vere, anche se fossero inventate. Ci parla di cose che cerchiamo magari di evitare ma che tornano sempre a chiedere il conto.

Sempre tornare è il racconto di un lungo viaggio in autostop, dal Cocoricò, discoteca romagnola, fino a Roma. Senza soldi e senza documenti. Lungo il cammino, Daniele, alla ricerca disperata di qualcosa che illumini la sua vita, si confronta con il dolore (e le speranze) altrui, il dolore (e le speranze) delle persone che lo accompagnano o lo ospitano. Quando arriverà a casa, dopo aver sperimentato la complessità del mondo, vivrà forse le sue radici in modo diverso.

Non mi viene in mente nessuno scrittore che aprirebbe il romanzo con una frase così radicale Davvero è Tutto o Niente, Dio o caos? Non esistono le zone grigie?

«La zona grigia è la civiltà che abbiamo costruito per vivere in modo meno tragico la domanda sul senso. Ma l'interrogativo ultimo è drammatico, ci strappa da ogni convenzione sociale e ci riconduce al fondo della nostra natura. Daniele, il protagonista, sente di poter dare una risposta, non avverte il rischio concreto del fallimento. Si mette in viaggio per capire. Non sospetta di essere un altro capitolo del meraviglioso fallimento umano rispetto all'unica domanda che conta veramente».

Cosa spera di trovare?

«Daniele pensa che sotto qualche pietra, incisa nella corteccia degli alberi, espressa per bocca di un animale possa esistere una risposta, uno svelamento, uno squarcio nella tela, il crollo del visibile in virtù dei veri significati. Ha l'immaturità di dire: a casa mia ho già interrogato tutto, sarà questo viaggio il mio punto di svolta».

Di fatto però incontra soprattutto dolore, anche se diverso dal suo.

«Quella che incontra, anzi, che gli precipita addosso, è tutta l'umanità che viaggia insieme a lui. In questo senso, l'autostop era straordinariamente simbolico. Due sconosciuti procedono assieme. Daniele troverà altri rabdomanti come lui, che cercano, inquieti, spesso senza sapere cosa. Gli imprevisti introducono un elemento dialettico. Il viaggio vive sempre in una terra che non hai scelto tu, ma che sceglie lui per te. Nella nostra esperienza, la dimensione dello sconosciuto è stata dimenticata. È la dimensione dell'educazione che arriva dal di fuori, da qualcosa che non era previsto. Noi viviamo in due dimensioni. La prima è la nostra famiglia, il nostro lavoro ma c'è quella alterità che entra senza chiedere permesso e che può anche salvarci, salvarci letteralmente la vita».

Però il romanzo si intitola Sempre tornare. L'esperienza dell'altro ci riconduce alla nostra casa?

«Nella prima parte del viaggio, Daniele incontra una sirena, Emma, quasi si innamora, ed è uno scatto, può sembrare microscopico ma è radicale. A un certo punto, ogni viaggiatore che mette in palio la sua identità è costretto a una decisione: non tornare, eventualmente perdersi, e sono in molti che si sono persi; oppure girare la boa e veleggiare verso casa. Daniele si è quasi convinto di governare questo enorme paesaggio, vincendo la timidezza, e arrangiandosi sempre ma».

Ma l'elemento sconosciuto glielo impedisce.

«Sì, il momento di svolta è l'incidente stradale di una macchina che gli ha appena rifiutato il passaggio. L'incidente è l'ingovernabile, rappresenta ciò che Daniele, in realtà, non è pronto a vivere. Lì comincia il suo vero ritorno a casa. Capisce che senza rientrare nella sua dimensione, non potrà mai sopportare la visione di una scena come quella».

Perché usa così spesso la parola «destino»? Lei arriva a dire che siamo scelti da un dolore millenario, che ci precede. Cosa significa?

«Oggi l'uomo ha troncato ogni relazione con la sua natura profonda. Ogni volta che entra in contatto con il vero io, si rende conto che sta dando nuova linfa, nuova energia a una storia che è sempre la stessa. Ti svegli in una vita che non hai voluto, in un luogo che non hai scelto, con il destino segnato dalla morte. Provi a difendere ciò ami, anche se in cuor tuo sai che è impossibile. C'è una ferita nella nostra natura».

Come si esprime?

«L'enorme nevrosi che sembra affliggere il mondo è dovuta a due fattori: il primo è che abbiamo smesso di parlare le lingue che ci consentivano di entrare in contatto con noi stessi. E mi riferisco soprattutto alla poesia. Senza poesia io sarei morto. Il secondo è che l'interrogativo radicale viene vissuto al pari di un elemento patologico. Ma l'uomo veramente malato è quello che evita le inquietudini, prima o poi esploderà».

Cos'è veramente umano?

«Condividere non tanto la risposta ma la domanda di senso».

Il rovescio della medaglia di questa profondità di visione è la ricerca della leggerezza. Ma in cosa consiste la leggerezza?

«Il gioco, lo scherzo con l'altro è una forma di salvezza da se stesso. Ci sono momenti di solitudine in cui sentiamo di sprofondare in noi stessi. L'allegria, il piacere di stare assieme è una fondamentale ancora di salvataggio, anzi di Salvezza, con la maiuscola. Da scrittore, amo i controtempi comici, in questo libro in particolare ho cercato di includere anche questo elemento. Non volevo che la trilogia fosse unicamente all'insegna del dolore. Uno scrittore, poi, deve saper giocare carte diverse».

Lei parla spesso di «nostalgia». È positiva o negativa?

«Il male che cova in me, che ha preso forme diverse nella mia vita, parla con due lingue: la paura, il costante ritratto malevolo di qualcosa che deve ancora accadere; la seconda è la nostalgia del mio passato, che tende a incantarmi e vendermi i fatti come non sono stati. Io non vorrei mai tornare giovane. Sono stato troppo male e ho fatto stare male troppe persone. C'è poi una nostalgia diversa, più grande, la nostalgia di un luogo che precede tutto e di un tutto dove tutto abbia convissuto e dove tutto convivrà, non riesco a dirlo in altri termini. Noi, i nostri genitori, i nostri figli. Questa nostalgia è una stella polare».

La bellezza dell'arte può sconfiggere la morte?

«Nel rifare questo viaggio, questa volta scrivendo, ho ritrovato tanta bellezza, la bellezza del nostro Paese, che forse non meritiamo. La bellezza riflette il bisogno di testimoniare e trasmettere un'impresa che va oltre al contributo del singolo. Abbiamo smesso di credere nella bellezza, nella testimonianza, nella trasmissione. Chi oggi inizierebbe un'opera come la Sagrada Familia di Barcellona, sapendo che non ne vedrà mai la fine? Ma questo vale anche per le cose orribili, anche dell'orrore si dovrebbe dare testimonianza attraverso l'arte. L'arte serviva anche a trasferire memoria. Questo meraviglioso meccanismo si è spezzato.

Siamo produttori di cose che non devono durare».

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