Cannes Se questa è la Cina, si comprende perché una grande potenza economica difficilmente sarà anche un modello comportamentale, un'idea di emulazione, un modo di vivere, una cultura da cui abbeverarsi. Abbiamo avuto la Finis Austriae, l'appeal britannico, la grandeur francese, il sogno americano, ma prima che Pechino parli al nostro cuore e non si limiti a bussare e/o riempire le nostre tasche, ce ne vuole.
A Touch of Sin, di Jia Zhang-Ke, già Leone d'oro a Venezia nel 2006 con Still Life, è un compendio doloroso e irato di quel mondo. La corruzione politica non ha rivali, lo sfruttamento economico nemmeno. Mezzo secolo di comunismo egualitarista ha lasciato il posto a un capitalismo selvaggio e social-nazionale, dove solo i legami familiari reggono, ma non esiste più un potere intermedio, una comunità di appartenenza, e si è soli di fronte a una guerra di tutti contro tutti in cui ciascuno si fa la legge, e la vendetta, da solo.
«Uno dei nostri problemi - dice il regista - è una società priva di canali di comunicazione. Non c'è la possibilità di conoscere, intervenire, chiedere aiuto, ottenere ascolto. Questo, nelle persone più semplici e più deboli, scatena le reazioni violente come ultima chance di una dignità violata e calpestata. Il film racconta storie vere, adattate, ma vere».
A Touch of Sin, la colpa, il peccato e le sue componenti, rimanda nel titolo e in determinate scelte filmiche alla tradizione cinese precedente al maoismo, vale a dire il racconto epico di una civiltà feudale in cui l'onore, il rispetto, le gerarchie, i codici comportamentali, le tradizioni avevano il compito educativo di regolare i conflitti. «Se si vuole, anche le quattro storie che compongono il mio film - dice ancora Jia Zhang-Ke - ambientate in quattro regioni della Cina, richiamano la tradizione pittorica del paesaggio. Così come i pittori classici cercavano di rappresentare il panorama di tutto il Paese, così io ho cercato di dare una rappresentazione generale della Cina.
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