Cannes - In limousine al funerale del capitalismo può anche essere un’idea. Se poi in compagnia di un vampiro di Wall Street, impersonato dalla quintessenza del vampirismo new age, ancora meglio. Ma per Cosmopolis di David Cronenberg, in concorso ieri, tratto da un romanzo di Don DeLillo, Underworld, vale lo stesso discorso di On the road, Paperboy, Io e te: la scrittura è meglio dell’immagine.
Così come in Holy Motors, il francese Leos Carax metteva in scena macchinoni di lusso parlanti, e l’iraniano Abbas Kiarostami taxi e automobili dentro cui incessantemente si parlava, anche l’americano Cronenberg utilizza le quattro ruote nel loro massimo di lunghezza come fossero un set. Coincidenza o nuovo corso, non sapremmo dire, ma resta l’impressione di un cinema che sempre più si restringe, quasi che la realtà sia divenuta troppo complessa per poterla raccontare all’aria aperta.
Cosmopolis narra le ventiquattro ore di un giovane magnate della finanza, Eric Packer, che ha deciso di attraversare la città di New York per andare dal suo barbiere di fiducia, nonostante l’arrivo in città del presidente degli Stati Uniti, cortei di protesta anarco-situazionisti e il caos causato dal crollo internazionale delle Borse abbiano mandato in tilt il traffico urbano, e fra imbottigliamenti e scontri si procede a passo d’uomo. C’è poi un possibile attentato alla sua persona che sconsiglierebbe la traversata, ma il nostro eroe, se così si può dire, è uno che ama il rischio e non ha il senso del limite.
Ex ragazzo prodigio di Wall Street (fino a ieri era il più giovane, ma adesso ha 28 anni e c’è già chi gli soffia sul collo per prenderne il posto), Eric durante il percorso entra e esce dalla macchina, incontra gente, fa sesso, si fa controllare la prostata, ha il tempo di essere lasciato dalla moglie, di fallire, di uccidere e infine di essere ammazzato, una sorta di catarsi se non di resa.
È un essere complicato Packer, crudele, volgare nella sua animalità predatoria e nella sua ansia di possesso, eppure sofisticato, vulnerabile, delicato, persino infantile (Robert Pattinson lo rende perfettamente). Se si vuole, è una metafora del capitalismo stesso colto nel suo elemento autodistruttivo. A un certo punto del film, un suo collaboratore fa addirittura delle proiezioni a partire dall’ipotesi secondo la quale, un domani, la nuova moneta di scambio potrebbe essere rappresentata dai topi...
Secondo Cronenberg, è proprio questo elemento autodistruttivo ciò che, letto il romanzo, l’ha spinto a girare il film. Non si tratta di fare dell’ipocrisia sulla cattiveria del capitalismo in sé, sul denaro «sterco del diavolo», perché non è questo il punto, ma di rendersi conto che, rispetto a undici anni fa, quando Underworld uscì, l’autodistruzione è andata ancora più a fondo e si è tramutata in qualcosa di planetario da cui non si sa bene come uscire.
Così come Lawless e Killing them softly, anche Cosmopolis parla dunque della crisi economica, ma Cronenberg sceglie di andare al cuore del sistema, banche, multinazionali, mercati emergenti, crack e tensioni monetarie, compresso in uno spazio ristretto che ne accentua ancora di più l’elemento virtuale e insieme globale, l’idea di un mondo a sé, isolato e protetto.
Eppure, il film fatica a imporre il proprio ritmo: Pattinson è convincente, ma non lo sono i vari comprimari incontrati per strada e/o in macchina (una stranita Juliette Binoche, un gigionesco Mathieu Amalric), nonché il suo carnefice finale, Paul Giamatti, troppo caricaturale per poter essere visto come una nemesi.
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