Cultura e Spettacoli

Vanità, caso, ossessioni. Ecco la vita reale di un baro per finta

Chi sono, davvero, i bari? Una risposta, elaborata direttamente sul campo, ce la regala Sacha Guitry

Vanità, caso, ossessioni. Ecco la vita reale di un baro per finta

Chi sono, davvero, i bari? Una risposta, elaborata direttamente sul campo, ce la regala Sacha Guitry, francese nato a San Pietroburgo (1885-1957), attore e regista ma sopratutto sceneggiatore e commediografo, Signore della scena e della penna. Scrive Sacha (che era solo il nomignolo di Alexandre-Pierre Georges Guitry): «I bari sono spesso equiparati ai ladri. Niente di più sbagliato, secondo me. Rubare significa prendere a persone fondamentalmente oneste dei soldi che esse non avevano arrischiato e questo non va bene. Barare, invece, significa intralciare i progetti del caso, appropriarsi delle somme che altri hanno avuto l'imprudenza o la presunzione di mettere a repentaglio, a disdicevoli fini di lucro e con la segreta speranza di essere favoriti dalla sorte e dagli errori dell'avversario. Barare significa sventare le loro trame, e non solo contrastare l'operato del caso, ma addirittura sostituirsi a lui». Poi, la staffilata. Che a teatro si chiama colpo di scena: «Io baro ergo, il caso sono io».

Sacha Guitry, che non era propriamente un baro né il caso fatto persona, era però uno straordinario uomo di teatro. Fra qualche insuccesso e moltissimi successi scrisse e mise in scena - e quasi sempre interpretò - centoventiquattro pièce teatrali e trentasei film (esordì alla regia all'alba del cinema, già nel 1914, e la critica gli riconosce originalità e capacità di innovazioni, paragonandolo persino a Orson Welles...). E poi scrisse un romanzo, uno solo, ma rimasto nella storia della letteratura: Memorie di un baro, ora pubblicato in Italia da Adelphi (pagg. 136, euro 13; traduzione di Davide Tortorella), con una serie di piccoli disegni dell'autore e impreziosito da una imperdibile postfazione di Edgardo Franzosini, grande narratore di piccole biografie eccentriche. E Sacha Guitry biograficamente è perfetto: figlio di attore forse più bravo di lui (con inevitabile strascico di rapporti molto difficili), scrittore brillantissimo e instancabile, nome di spicco della società parigina del tempo (era il «Molière della Terza Repubblica»), membro dell'Académie Goncourt e sospettato (ma la vicenda è confusa) di collaborazionismo con i nazisti durante l'occupazione tedesca di Parigi...

Ma quello che interessa, ora, è il suo romanzo (che diventerà anche un film), Memorie di un baro, apparso inizialmente a puntate nel 1934 sul settimanale Marianne creato da Gaston Gallimard, la cui trama - beffarda e paradossale - l'autore stesso riassunse così: «Quarant'anni della vita di un uomo al quale le proprie azioni disoneste procurano la felicità, e che viene immediatamente abbandonato dalla fortuna allorché decide di emendarsi». Sale da gioco, casinò, humor nero (il romanzo comincia con una intera famiglia sterminata da una cena avvelenata, unico superstite il figlio più piccolo, che commenta: «Da un giorno all'altro, un piatto di funghi mi lasciò solo al mondo»), la vita come imbroglio, e viceversa, amori, superstizioni, ossessioni, tronfi, azzardi, vanità, cadute e imprese.

Cioè, la vita.

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