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Il vecchio, il mare e il Male (che vuole sommergerci)

Nel romanzo di Frizziero, una piccola isola è la metafora dell'infelice condizione umana

Il vecchio, il mare e il Male (che vuole sommergerci)

L'Isola dove abita il pescatore, che in barba alla maiuscola è solo un desolato isolotto non distante dalla laguna di Venezia, «non è che una cicatrice del mare, un postaccio, insomma, dove non cresce nulla se non i platani piantati dal comune». E come nel celebre racconto di Hemingway, Il vecchio e il mare, anche questa storia si apre con l'evocazione di un passato ricco di qualche successo; in particolare sarebbero memorabili gli anni in cui navigava sull'Audace, «il più grande peschereccio dell'Isola». Eppure già allora il protagonista del romanzo di Sandro Frizziero (Sommersione, Fazi, 198 pagg., 16 euro) non era esattamente un'eroe: anche nei giorni felici, infatti, oltre a pescare gettava tonnellate di rifiuti chimici nell'Adriatico, in un'epoca in cui del resto era consentito dalla legge. Il mare diventava rosso «come durante una mattanza». L'uomo aveva una moglie, la Cinzia, ossessionata dal letto non per passioni lubriche, ma nel senso che doveva essere rifatto bene. Da qualche parte, ma comunque lontano, c'è poi una figlia, Simonetta (persino i nomi di battesimo in queste pagine trasudano disperazione) e un pugno di figure che non possono essere definite amiche perché affinché vi sia amicizia deve esserci di mezzo qualche virtù e questo non è proprio il caso. Adesso il vecchio cattura piccole orate che vende ai ristoranti di Venezia. Per fortuna si può approfittare di una diga, che si erge accanto a un deposito di novemila metri cubi di gas metano, dalla quale buttare la lenza. Dopo aver pescato, il vecchio rincasa. Vive in un edificio disegnato da un geometra negli anni Sessanta. Si muove fra le stanze circondato dalle riviste della moglie morta. Se l'Isola è un carcere allora l'abbaiare della Gigia, la cagna della vicina, sarà come il passare dei manganelli dei secondini sulle sbarre della cella. Per risolvere il problema il vecchio prepara una polpetta avvelenata. Il tempo che resta lo dedica al fuoco amico dei ricordi, come direbbe Piperno, ricordi che si estendono alla fauna umana dell'Isola. È una sequenza di storie atroci: pensionati cattivi spolpati da badanti rapaci, tradimenti abominevoli, morti atroci e tutte a credito (il nome di Céline, assieme a quello di Maupassant, è uno dei primi che vengono in mente). Il vecchio respinge persino il suo creatore, che lo scarica e gli si rivolge con un tu distante anni luce dal tu adolescenziale reso celebre da Baricco: «Del diavolo hai la cattiveria, ma non la dignità». «Ti senti così lucido da voler ancora infettare il mondo con le tue malefatte». Dal punto di vista delle strutture narrative, in Sommersione spicca l'assenza di trama; tecnicamente non si tratta nemmeno di un romanzo perché il romanzo, anche quando manca il lieto fine, è un genere ottimistico e borghese; il protagonista può fallire, ma se ciò accade è perché non è stato abbastanza bravo. Poco male: ormai se c'è un luogo comune nell'ambito della critica letteraria è che l'intreccio è ciarpame, adescamento, avvilimento dell'autore non meno che del lettore. E ciononostante, in barba alla latitanza delle cento trappole tese dagli scrittori di mestiere, non si riesce a staccare lo sguardo da queste pagine costellate di immagini ciniche e relative a un'umanità ridotta all'osso, come se da queste vicende picaresche, ma di un picaresco senza riso e senza la felicità del mangiare, della momentanea redenzione concessa dai sensi, risuonasse la campana di una verità comune, non limitata ai fuorilegge dell'Isola. Si sfoglia, si continua a sfogliare e pian piano si finisce per sentirsi il più classico degli hypocrites lecteurs.

Appassionatamente sponsorizzato nel risvolto di copertina da Tiziano Scarpa, leale veneziano che rinviene in Sommersione «tutti i sinonimi dell'amore malinteso», il romanzo di Frizziero testimonia il contrario, che si può tirare a campare declinando tutti i verbi del mondo tranne l'amare e tuttavia sopravvivere. Attenzione, poi, a non lasciarsi fuorviare dal titolo che evoca i romanzi di Houellebecq: l'atmosfera opprimente, è vero, è simile e non si intravede nessuna speranza all'orizzonte. Nessuna foglia di fico occulta la miseria dell'essere umano, nessuna droga ideologica concede requie dalla spietatezza della vita. Ma in Houellebecq la depressione che schiaccia i personaggi è sempre inserita in una cornice glamour che ingannando il lettore, e solo lui, fa un po' le veci delle illusioni leopardiane.

Frizziero è più coraggioso e fa volentieri a meno di tali giochi di prestigio: la marea che presto travolgerà l'Isola, complice il riscaldamento globale e le trivelle che trasformano il fondo dell'Adriatico in un guscio vuoto, è già arrivata.

Non è un caso che le pagine più belle, e che potrebbero essere definite liriche se il termine in questo caso non risultasse fuori luogo, sono quelle in cui l'autore immagina che il protagonista anneghi fra le note di una grottesca sinfonia di bizzarri animali marini, cefalopodi e sogliole, anticipando una dissoluzione atrocemente postuma.

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