Prima visione

Sul Muro d’Israele mano anonima ha citato Tucholsky: «Un popolo non è solo quel che fa, è anche quel che lascia fare». Si legge la scritta ne Il tempo che ci rimane, di e con Elia Suleiman, storia di famiglia e solidarietà, di patria oppressa e patriottismo sommesso. Prima del Tempo che ci rimane, Suleiman aveva proposto a Cannes Intervento divino sul contrastato amore fra giovani arabi d’Israele e dei Territori arabi ulteriormente occupati dal 1967. Invece Il tempo che ci rimane evoca i sessant’anni di Israele per gli arabi cristiani e i musulmani della Galilea, dal 1948 cittadini israeliani senza desiderarlo.
Suleiman fa affiorare la realtà attenuata dalla malinconia e dal silenzio del suo film: in cui si vedono frammenti della guerra del 1948 e dell’Intifada del 1989-90, perché il futuro padre (Saleh Bakri) di Elia Suleiman aveva realmente tentato di adattare munizioni tedesche ad armi inglesi nel 1948. Lui è il protagonista della prima parte del film: dopo essersi arreso, aveva vissuto da sorvegliato, perché ogni tanto bruciava una bandiera.
Quando il piccolo Elia (Zuhair Abu Hanna) va a scuola, a Nazaret, eredita la condizione di persona sospetta. Ma perché rassegnarsi quando la demografia ti dà ragione ogni giorno di più? Davanti alle nascite tre volte più importanti degli arabi rispetto agli ebrei israeliani, il futuro di questi ultimi sarà il passato dei francesi d’Algeria e dei bianchi del Sud Africa.
Poi c’è la parte familiare. Borghesi, i Suleiman hanno vicini molto peculiari, anche loro più o meno condizionati dall’occupazione. Infatti fra i palestinesi c’è chi s’è adattato al dominio ebraico, così come genitori e nonni s’erano adeguati al dominio ottomano. C’è per esempio chi denuncia il cugino (Suleiman padre, cioè) all’Haganah, poi chi fa cantare ai bambini arabi gli inni israeliani, chi entra nella polizia.
Gli ebrei di Suleiman sono invasori, non mostri.

Il tempo che ci rimane è quindi schierato, non settario. Questo realismo valeva anche per certi ebrei del 1948. Dal 1967 avrebbe prevalso l’influenza che nega al nemico tale qualifica e ne fa un «terrorista». E col «terrorista» non si fa pace.

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