Uno degli omaggi degli ultimi anni è stato quello del Premio Campiello, che nel 2017 - a trent'anni da Le strade di polvere (uscito da Einaudi, come quasi tutta la sua produzione), che vinse nel 1988 Campiello e Viareggio le consegnò il Premio alla Carriera.
Ora che Rosetta Provera Loy si è spenta nella tarda sera di sabato a Roma, a 91 anni era nata sempre a Roma il 15 maggio del 1931, ma sarà tumulata in Piemonte, nel cimitero di Mirabello Monferrato, dov'è ambientato proprio Le strade di polvere, e paese natale di suo padre si può dire che di omaggi, come scrittrice e come intellettuale, ne ricevesse continuamente. I lettori, i critici, i media la amavano molto, come persona, come modello. Ne sentivano sincerità, spontaneità, integrità: non solo come parte delle storie che narrava, storie in cui amore e memoria sono i fari che guidano un'epica dell'individuo e della famiglia, ma come riflessi della sua intera vita: i ricordi del singolo e quelli del passato collettivo si fondono con le vicende personali dell'infanzia e dell'adolescenza della scrittrice in, tra gli altri, La prima mano, La porta dell'acqua, Cioccolata da Hanselmann, La parola ebreo, Nero è l'albero dei ricordi, azzurra l'aria. Di cronache italiane più recenti narrano Cuori infranti (Nottetempo, 2010), sugli omicidi di Novi Ligure e di Erba e Gli anni fra cane e lupo (Chiarelettere, 2013), sulla storia d'Italia dal 1969 al 1994.
La amavano le scrittrici, prima fra tutte Natalia Ginzburg, che sul suo esordio La bicicletta, arrivato nel 1974, scrisse: «La vita d'una famiglia dell'alta borghesia, in Italia, negli anni della guerra e del dopoguerra... I personaggi guardano la realtà come dall'alto d'una finestra o d'una terrazza. Non riescono ad afferrarne che gli echi e i lampi. Sensazioni e ricordi rimbalzano dall'uno all'altro, e tutto il racconto è come un sommesso bisbiglio corale». Fu la Ginzburg a volerla pubblicare, ma l'incontro con la Ginzburg arrivò grazie a un'altra figura chiave della vita della Loy, sia letteraria che personale: quella di Cesare Garboli, cui la Loy dedicò nel 2018 anche l'ultimo suo libro, Cesare, incentrato sul quel critico letterario che per lei fu una vera folgorazione.
Se Garboli scriveva di lei «Rapida, essenziale, concreta; ma, come certi scrittori dell'Ottocento, si esalta in quegli argomenti sui quali finiamo sempre col misurare, per abitudine, il talento dei romanzieri: l'amore, la guerra, i bambini, la morte», lei disse di lui, in un'intervista a Leone D'Ambrosio: «Cesare era un uomo molto affascinante, intelligente ma anche un po' folle. Confesso però che persi la testa per lui, io che ero stata sempre fedele a mio marito. Quando Beppe morì all'improvviso d'infarto nella nostra casa di Sperlonga sono stata molto male e Cesare da allora mi fu molto vicino». Beppe, scomparso nel 1981 per un infarto, era il fotografo Giuseppe Loy, fratello del regista Nanni, che Rosetta sposa quando lui è ancora in bilico tra la laurea in Giurisprudenza e il lavoro di commesso e che dopo qualche anno sarà il fotografo dell'Italia del boom.
Rosetta cominciò a scrivere a nove anni e a quattordici si chiudeva in camera con la sua migliore amica, per leggerle i suoi racconti, ma solo a ventiquattro si risolverà a considerare la scrittura come sua strada nella vita. Erano gli anni in cui scopriva Proust, ma anche altri grandi dell'Ottocento, russi e francesi, e specialmente il Tolstoj di Guerra e pace, da cui raccoglie l'indicazione a mettere al centro il dolore e il movimento del coro, delle genti. Se La bicicletta e La porta dell'acqua (1976) vengono considerati un dittico della memoria e dell'infanzia, in cui lo sguardo si muove tra quotidiani riti familiari e drammi altoborghesi, La parola ebreo (1997) e Cioccolata da Hanselmann (1995) sono il suo personale, sofferto tributo alla tragedia dell'Olocausto: guerra e morte, sì, ma anche autobiografia, visto che al centro de La parola ebreo (Premio Fregene) c'è proprio la storia della famiglia di origine della Loy, una famiglia borghese e cattolica che non reagì di fronte alle leggi razziali, priva di una vera coscienza della tragedia.
Nel toccante incipit della sua autobiografia, Forse, pubblicata nel 2016 da Einaudi, scrive: «Io sono morta tre volte. La prima è stata a cinque anni quando mi hanno addormentata col cloroformio per rimettere ordine nella mia pancia La seconda è stata vent'anni dopo, quando ho partorito la mia prima bambina e per quattordici ore il mio corpo è stato dilaniato da un crescendo spasmodico di contrazioni. Nessuno mi aveva preparato a quello che sarebbe potuto accadere» e la terza quando i medici per leggerezza sbagliarono una diagnosi che riguardava i suoi polmoni. Si rammaricava, la Loy, di non aver saputo raccontare proprio la sua seconda resurrezione e la donna che ne venne fuori: una giovane con la bambina in braccio (che poi sarebbe diventata la scrittrice Margherita Loy), e poi gli altri figli, accanto all'«aristocratico comunista» di cui si innamorò e quella felicità, «che si srotolava simile a un tappeto».
Si rammaricava di non poter resuscitare il tempo, fatto di partite a calcetto, odore di petunie e aglio nel fiato di un contadino. Ed è di questo rammarico che ha fatto innamorare, in mezzo secolo di romanzi, migliaia di lettori.
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