Cultura e Spettacoli

Yehoshua, cantore del sogno di un Israele con due popoli

È morto a 85 anni lo scrittore, più volte candidato al Nobel come l'amico Oz. Era malato da tempo

Yehoshua, cantore del sogno di un Israele con due popoli

Abraham «Aleph» «Beth» Yehoshua, Boolie per gli amici, se n'è andato davvero a 85 anni. Lo aveva annunciato a tutti quelli che lo conoscevano: lo faceva in tono di sfida, era sicuro che dopo la morte non ci fosse niente, e «menomale, almeno un po' di riposo». La sua morte era ormai oggetto di conversazione accesa: lui stesso aveva creato una situazione in cui, pur sapendo, tutto Israele, che Boolie stava male, si sperava in una conclusione procrastinabile. Non era così. Il grande scrittore, leone della letteratura mondiale, se n'è andato. Amos Oz è morto nel 2018. Nessuno dei due, e se lo meritavano, ha avuto il Premio Nobel. Ne staranno discutendo fra le nuvole estive: credevano ormai, ambedue da sinistra, in prospettive molto diverse per lo Stato d'Israele e il conflitto coi palestinesi. E litigavano, quei due caratteri speciali. Per Amos Oz permaneva l'idea tipica degli accordi di Oslo: due stati per due popoli. Yehoshua, dal tempo dell'Intifada, aveva smesso di sperare in un confine concordato, e accettava l'idea di uno stato binazionale. Yehoshua, Oz, e anche David Grossman sono nomi che il mondo venera. Boolie ha scritto una trentina di romanzi oltre ai saggi politici, è stato tradotto in 28 lingue, il New York Times l'ha chiamato «il Faulkner israeliano». Il suo Molcho protagonista di Cinque Stagioni che fra ebrei sefarditi e ashkenaziti a contrasto cerca moglie, rimasto vedovo, spaesato e stanco; i protagonisti di Un divorzio tardivo, con Yehuda che torna dall'America e ritrova pieno di dubbi il vecchio mondo... hanno insegnato come accanto all'Israele aguzzo e sulla cresta della cronaca, ce n'è uno umano, troppo umano, in cui insieme fluttuano ebrei e arabi in cerca di amore, buon senso, sopravvivenza.

Soffrendo nel corpo smagrito, si è tuttavia portato per un estremo saluto di fronte al pubblico estatico di Gerusalemme per la fiera del libro e, straziato, è riuscito a discutere di letteratura e anima ebraica, il suo tema dominante, il suo canocchiale, il microscopio, il bisturi puntato sulla condizione umana.

Ha imboccato da grande protagonista, da scrittore e da politico, il sentiero della morte. A me che gli ho telefonato nell'appartamento al 21esimo piano a Tel Aviv -vicino ai suoi tre figli Silvan, Gideon e Nahum e ai sette nipoti («hanno paura di me, nessuno ha osato spostarsi, poveretti quelli i cui figli stanno a Parigi o a Berlino»)- disse poche settimane fa «Sento troppo dolore, ormai verrai a trovarmi al mio funerale». Aveva ragione. Boolie in realtà non era lo stesso da sei anni, ovvero dalla perdita di Ika (Rivka era il vero nome), la sua adorabile moglie psicanalista; lei, che aveva 19 anni quando lui, a 23, la vide per la prima volta vestita da soldatessa, e gli tolse il sonno finchè non la sposò. Quanto lui era violentemente assertivo, lei era dolce e capace di smussare gli angoli: una volta ci bloccò col sorriso da una furiosa discussione politica all'Hotel Raphael di Roma. Boolie era tormentato dall'idea che il popolo ebraico non potesse trovare la pace col mondo arabo: il mondo orientale era anche dentro di lui, e della pace, dell'umanizzazione del mondo arabo aveva fatto la sua bandiera. In Di fronte ai boschi (in Il Poeta continua a tacere Giuntina),lo scontro insanabile si manifesta nel fuoco appiccato da un arabo con una bambina per mano: egli appare e scompare ai margini della foresta inutilmente sorvegliata da un ragazzo ebreo stupefatto; anche L'amante torna sul tema con la sua narrativa ironica, a frasi brevi, un mistero dietro ogni parola. La componente orientale sefardita si presenta come parte del conflitto da snodare, come in Viaggio alla fine del millennio, la giocosa danza storica da Tangeri a Parigi del bigamo ebreo che va in Europa per essere accettato con le sue due mogli dai parenti ashkenaziti. Boolie vive il mondo ebraico orientale con forza passionale: sono le sue origini, il padre Yaakov Yehoshua aveva scritto 12 libri in arabo nella Gerusalemme britannica, e la madre Malka era nata in Marocco.

Voleva che Israele fosse un mondo perfetto, giusto; nei suoi interventi politici, tanti, biasima ora la guerra del Libano, ora la mancata realizzazione del sogno della condivisione, ora Netanyahu, di cui peraltro negli ultimi anni lodava l'intelligenza. Lamentava un eccesso di memoria sia negli ebrei che nei palestinesi, di cui sperava che avrebbero superato l'inutile preservazione delle chiavi di casa di Haifa, per esempio. Negli ebrei il rimpianto doveva lasciar posto al sionismo: per carità, andare a cercare le radici? Magari a Salonicco, in Polonia a rivangare la storia di famiglia? Ma là hanno ammazzato tutti gli ebrei, non c'è niente da cercare. Un ebreo che non vive in Israele era per lui un terzo di se stesso. Avrebbe voluto che il mondo arabo partecipasse dell'avventura e questo non ha mai annacquato il suo sionismo. Strano: Yehoshua è stato una bandiera di gloria culturale per Israele, e insieme tuttavia ha alimentato con le sue opinioni il biasimo che invade spesso l'opinione internazionale. Ma il suo amore totale per l'indispensabile Stato degli Ebrei è fuor di dubbio.

Così come la sgargiante forza del suo narrare.

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