Spie, intercettazioni e la voce d’un imitatore Il blitz come un film

Un ostaggio in fuga, il sequestro del computer di un capo guerrigliero, agenti infiltrati e un clamoroso «bluff» finale. Non è la trama di un film, ma la storia dell’operazione «Scacco», che ha beffato i terroristi colombiani. Con l’obiettivo raggiunto di liberare Ingrid Betancourt e altri 14 ostaggi, tra cui tre americani.
La storia inizia nel maggio dello scorso anno. Il sottotenente «Frank» Pinchao, prigioniero delle Farc (Forze armate rivoluzionarie della Colombia), riesce a fuggire. Chi ci aveva provato prima di lui si era perso nella fitta selva colombiana, finendo per morire di stenti. A Pinchao va meglio: le forze di sicurezza colombiane organizzano una vasta operazione di salvataggio e il militare viene recuperato. Subito inizia a raccontare che ha diviso la prigionia con la Betancourt, l’ostaggio più eccellente delle Farc. Nasce così il progetto di localizzare il lager nella selva della franco-colombiana. Con la liberazione di altri ostaggi, compreso Clara Rojas, braccio destro della Betancourt, il cerchio si stringe. In febbraio i corpi speciali Omega, addestrati dagli israeliani, si infiltrano dietro le linee dei bandidos. Sul fiume Apaporis vedono due ostaggi americani e uno colombiano che fanno il bagno. Non intervengono per evitare di far saltare l’operazione, che punta all’obiettivo principale, la Betancourt. Ma da quel giorno i satelliti americani si concentrano nella zona.
Il primo marzo le unità Omega mettono a segno un colpo da manuale. Eliminano il numero due delle Farc, Raul Reyes, nascosto in Ecuador. Fra i resti del suo accampamento recuperano il computer utilizzato per comunicare con il «segretariato», il vertice della guerriglia. Nomi in codice, spie, numeri di satellitari, contatti preziosi finiscono nelle mani dell’intelligence colombiana. L’operazione Scacco comincia a delinearsi. La prima mossa è l’infiltrazione. Grazie ai consigli del Mossad i servizi di Bogotà riescono a introdurre un agente nel «segretariato». Allo stesso tempo le tecnologie satellitare e di intercettazione americane permettono di localizzare le prigioni nella giungla di Guaviare, dove i bandidos tengono i sequestrati più importanti. L’area è sotto il comando di Gerardo Antonio Aguillar, nome di battaglia «Cesar». L’antidroga americana arresta «Sonia», la sua amante, che in realtà si chiama Luz Dary Conde Rubio. Vizi e virtù del comandante Cesar vengono radiografati per capirne la psicologia.
La fase finale dell’operazione scatta agli inizi di giugno. L’ostacolo maggiore è concentrare gli ostaggi, che sono dispersi in tre diverse prigioni. I servizi di Bogotà attivano l’infiltrato al vertice delle Farc, guidate dal nuovo leader, Alfonso Cano. La «spia» trasmette un ordine al comandante Cesar, come se arrivasse da Cano: bisogna raggruppare gli ostaggi e trasferirli in un’altra zona per un possibile scambio di prigionieri. Tutto dovrà avvenire alla presenza di Cano, che dovrà farli incontrare con dei mediatori internazionali. Per rendere l’operazione più credibile sembra sia arrivata a Cesar anche una finta telefonata satellitare di Cano, effettuata in realtà da un agente in grado di imitare perfettamente la voce del capo guerrigliero. Il giorno prima del blitz Uribe è a cena con John McCain, candidato repubblicano alle presidenziali Usa e lo informa dell’intenzione di tentare la liberazione dei tre ostaggi americani, prigionieri dal 2003.
Il giorno fissato i militari giocano la carta del bluff: fingono l’esistenza di un’organizzazione umanitaria, incaricata di prelevare gli ostaggi con degli elicotteri dipinti di bianco. Cesar ci casca in pieno. Oppure, come qualcuno sospetta, sta al gioco perché le Farc sono oramai divise e a pezzi. «La fase dell’azione e della liberazione è durata solo 22 minuti e 13 secondi, ma sono stati i più lunghi della mia vita», ha confessato il generale Mario Montoya, il comandante dell’esercito colombiano che guidava l’operazione. Mercoledì mattina un elicottero bianco con a bordo nove uomini dei corpi speciali e dell’intelligence colombiana atterra nel punto concordato. Indossano magliette con il faccione barbuto di Che Guevara, e tengono le armi ben nascoste. Una sessantina di guerriglieri scorta i 15 ostaggi, compresa la Betancourt, che pensa all’ennesimo spostamento. Il comandante Cesar e il suo vice vengono fatti salire a bordo con la richiesta di lasciare la pistola a terra, perché la missione è umanitaria. Entrambi vengono subito immobilizzati e incappucciati. L’elicottero decolla, con gli ostaggi ancora incatenati.

«In quota ho visto che il comandante delle Farc era sul fondo del velivolo bendato – racconta la Betancourt –. A quel punto gli uomini con la maglietta di Che Guevara hanno detto: siamo dell’esercito colombiano, siete liberi».

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