Milano - È grigia, come l’asfalto della superstrada e della provinciale dove si muove lento il traffico maleodorante del suburbio milanese. Assomiglia a un bunker, di quelli progettati negli anni Settanta, isolato dal centro della vita, costruito per i tanti, ma fragile come un alveare (Le "canne" a scuola: guarda il video).
Ecco la scuola Emilio Gadda di Paderno Dugnano, dove comincia la Brianza che ancora ricca non è, l’Istituto superiore nato come un «esperimento». Didattico, culturale, di futuro. Adesso a guardarla così, macchiata dai graffiti si direbbe soltanto una scuola «sgarrupata». Liceo Scientifico, Linguistico, Grafico, Amministrativo, tutti insieme in un cubo a forma di «H». Dove una vicepreside, che qui hanno malignamente soprannominato «Tricheco», deve minacciare sospensioni per ottenere un minimo d’attenzione. Quattro piani, 1005 alunni, 46 classi per novantotto insegnanti. Cento, coi due di sostegno. Ed è qui che è morto l’altro ieri Dario Evola, accasciandosi sul banco come uno studente stanco e annoiato da una lezione «antica». Quindici anni incorniciati da un volto da adulto, dai modi pacati e da quel tipo di sorriso che fa sospirare le compagne. «Giocava a calcio, correva forte lungo la pista di atletica del “Gadda” e non litigava mai con nessuno», raccontano i compagni. Cosa l’ha ucciso? «Non certo lo spinello di cui parlate voi - sbraitano in coro -. Dario non era un tossico». E ricordano: «Aveva avuto una brutta influenza, prendeva antibiotici. Chissà forse una strana reazione».
Due boccate di canna, mercoledì mattina, all’intervallo, Dario le ha fatte. Insieme con quattro, cinque compagni. Che però possono ancora raccontarlo. Già, la droga. Quell’hashish che nei corridoi dell’Emilio Gadda, come probabilmente nel resto delle scuole superiori d’Italia, si può comprare tranquillamente tra un cambio di prof e l’altro. Basta andare in bagno o in giardino. Poi si fuma quasi liberi nel «peccatorio». Così è stata ribattezzata la zona franca in fondo ai lunghi corridoi dove si dipanano le scale esterne. Lì nessuno vede, da lì si può entrare e uscire da scuola impunemente. Due porte, primo e terzo piano coi maniglioni antipanico sapientemente spaccati, permettono a chiunque di muoversi. Anche a chi studente non è. Il cancello elettrico dell’entrata a scuola, manovrato dal custode, e su cui vigila un’inutile telecamera, ha il sapore della formalità. La lunga cancellata di protezione di questa «H» è alta meno di un metro e novanta. Chiunque può scavalcare, come chiunque può entrare all’orario d’apertura mescolandosi agli studenti.
Anche ieri è successo. Quando un gruppetto di amici ha voluto rendere l’ultimo omaggio al morto «graffitando» il suo banco. Erano quelli della «compagnia». Uno dei due vicepresidi, il solito «Tricheco», li ha notati stavolta, in un giorno in cui pochi, per non dire nessuno, sedeva in aula. E ha chiamato i carabinieri. Ne sono arrivati a decine, vigili compresi. Tanta scena, nessuna sostanza: i dieci «abusivi», qualcuno in sella allo scooter, se ne sono andati bellamente indisturbati facendosi beffe delle divise. L’anziano preside, Alberto Bernardotto, da un mese malato, arriva verso le 10 del mattino, sulla sua vecchia, ma dignitosa «Peugeot» verde bottiglia. Non vorrebbe parlare. Lo fa per buona educazione. Raccontando così, da dietro la sua saggia barba bianca, la storia di una scuola di periferia metropolitana che non è il Bronx, ma che riflette tanto il disagio e le contraddizioni dei nostri tempi. «Avevamo già segnalato in passato il problema del consumo di droga fuori e dentro l’Istituto», ammette.
«La Guardia finanza, era gia intervenuta in diverse occasioni, controllando diversi studenti. L’ultima volta un mese fa. Avevamo addirittura pensato a un sistema di video sorveglianza. Ma il progetto giace da mesi in Provincia».Tocca ai morti cambiare le cose?
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